La Lettura, 11 agosto 2019
I miei sette mesi schiavo in Puglia tra i pomodori
Anche le cicale sembravano gridare. Quel frinire incessante che sfiniva le orecchie gli sembrava la misura sonora del vuoto senza orizzonti in cui si sentiva precipitato. Prigioniero, senza via d’uscita, senza possibilità di decidere niente, di scegliere niente, di fare niente di diverso da quello che gli veniva ordinato di fare. Totalmente dipendente da altri, nelle mani di gente che di lui se ne fregava totalmente. Schiavo.
Quando comparivano all’improvviso, i caporali gridavano molto più forte delle cicale. Poche sillabe comprensibili soltanto perché accompagnate da gesti traducibili da qualsiasi dialetto. E lui, che si era sentito abbaiare in faccia in chissà quante lingue e accenti in mezza Africa e in mezza Italia, aveva imparato a captare i messaggi che potevano significare vita o morte, sofferenze aggiuntive o un quieto vivere di qualche minuto. Ma tutto questo annusare e schivare i pericoli, non gli era servito a evitare quella trappola. Così, quando alla stazione di Lecce incontrò quegli uomini che «offrivano lavoro», squadrandolo con i volti induriti, non si soffermò per concedere tempo ai dubbi e li seguì senza parlare, mescolandosi al drappello di ragazzi africani come lui. Sono passati cinque anni, e anche se adesso è un «uomo libero», ha un lavoro e persino una nuova famiglia italiana, Musa Yallow fa ancora molta fatica a parlare di quel periodo nei campi del Salento.
Eppure, prima di finire alla mercé dei caporali di orrori ne aveva già visti da vicino. In Libia, soprattutto. Musa racconta della fuga dal Gambia, il suo Paese diventato di colpo ostile da quando aveva espresso pubblicamente la sua opinione su alcune vicende politiche. «Con un pretesto o con l’altro i poliziotti non mi lasciavano in pace», ricorda senza dismettere il sorriso timido. Aveva quasi 19 anni, un diploma di scuola superiore e una famiglia costretta a una migrazione al contrario – dalla città alla campagna – dopo aver perso la casa per una questione amministrativa. Così era partito, senza sapere bene come e cosa avrebbe dovuto affrontare. E dopo l’inferno libico, sul quale non c’è modo di strappargli una parola, la traversata del Mediterraneo fino alle coste siciliane gli era sembrata una cosa da fare senza indugi. Non si era posto domande sull’imbarcazione.
Una volta approdato da questa parte del mondo, per un giovane immigrato africano il problema è mantenersi vivo e rimanere libero di muoversi. Quindi le ossessioni quotidiane sono soprattutto due: come guadagnarsi da vivere e quale strada seguire per ottenere il diritto a rimanere in Italia. La Babele dei passaparola può condurre praticamente ovunque. E oggi Musa fatica persino a ricostruire gli snodi e le scelte che lo hanno portato fino a Lecce. «Mi avevano detto che lì avrei trovato lavoro, perché nei campi c’era sempre bisogno di tanti ragazzi come me». Le indicazioni si erano rivelate più che precise: già alla stazione ferroviaria c’erano altri immigrati dai modi disinvolti e ruvidi che chiedevano «vuoi lavorare?». Anche loro partiti chissà quanto tempo prima da qualche punto dell’Africa e ora perfettamente funzionali al mercato delle braccia sul suolo italiano. La scena che Musa descrive ricorda certe aste di schiavi viste nei film: i caporali che camminano tra i ragazzi, li guardano, li soppesano, fanno domande secche e poi con un cenno del capo li invitano a seguirli su un camioncino. Ognuno di loro ha responsabilità e pieno potere su una squadra e da quella deve trarre il massimo di produttività, per questo sono privilegiate le braccia più forti e i temperamenti più docili.
La «sede di lavoro» di Musa Yallow è in mezzo alle campagne tra Porto Cesareo e Nardò. «Ci hanno portato in una baracca tra i campi – proseguono le memorie dell’ex schiavo – dove ci davano da mangiare e da bere e da dove si partiva ogni mattina prima dell’alba per andare a lavorare. La sera passavano a prenderci e ci riaccompagnavano. Ogni tanto ci trasferivano in un altro alloggio da qualche altra parte». Fatica e sfruttamento senza regole. Ma sono certi dettagli a rendere l’idea della prigionia. Oltre a ritirare preventivamente i documenti per ricattare i lavoratori, i caporali imponevano un prezzo su tutto: sulla stamberga che chiamavano alloggio, sul cibo (poco e di pessima qualità), sull’acqua da bere durante le giornate di lavoro sotto il sole. Trattenute di un euro, un euro e mezzo per ogni voce – compreso il trasporto su e giù dal luogo di lavoro – che immiseriscono paghe già vergognose. «Alcuni offrivano 3 euro per ogni cassone di pomodori (cioè due quintali, ndr), altri 4 euro all’ora». Insomma, sopportare poco la sete significa rischiare di trovarsi in debito. E comunque i caporali hanno mille modi per trattenere soldi e per chiedere più lavoro. E qualsiasi accenno di reazione finisce per schiantarsi sulla madre di tutte le minacce, sibilata nel più crudo linguaggio dei bianchi: «Ti denuncio e te ne torni a casa, negro di merda».
Le giornate di Musa e dei suoi compagni occasionali di schiavitù senza catene scorrevano così. Erano in Italia, sì, ma di fatto isolati, lontani dal nostro mondo e immersi in un altra realtà dalla quale non potevano neanche pensare di allontanarsi. Gli altri, i pugliesi, gli italiani, erano su uno sfondo virtuale. Quasi non si vedevano. Si sapeva che esistevano, passavano veloci sulle loro auto, ogni tanto se ne incrociava qualcuno che al massimo mostrava indifferenza, pietà o sopportazione. Poco altro. L’unica vera frequentazione erano i caporali, dai quali il popolo di fantasmi delle campagne dipendeva totalmente.
Una delle prime volte in cui aveva accettato di parlare di questo periodo, Musa aveva confidato che tutto sommato a lui andava bene così. Fare fatica nei campi gli evitava perlomeno di sentirsi osservato, diverso, sottoposto a un giudizio: «Almeno tra noi eravamo tutti uguali». Era imprigionato, non aveva praticamente alcuna libertà ma in quel momento – costantemente stordito dalla fatica, dal chiasso delle cicale e dalla minaccia dei suoi padroni – i pensieri erano frammentati, sopiti. Forse era effetto di un istinto di autoprotezione, ma non riusciva a mettere a fuoco la sua condizione. Semmai erano i fantasmi della Libia a tormentarlo ancora. Ma lì, in quel momento, di fronte a quelli che gli urlavano ordini e gli abbassavano la paga con pretesti sempre nuovi, tanto valeva piegare la testa e fare finta di niente. Anche perché aveva visto cosa succedeva a quelli che provavano a ribellarsi.
La svolta arrivò quando quella vita – salvo qualche passaggio da un padrone all’altro – si stava trascinando da sette mesi. E fu il caso a innescarla. «Un mio compagno di lavoro stava male da qualche giorno. Si lamentava, ma nessuno lo ascoltava – racconta il giovane gambiano – allora ho deciso di accompagnarlo dove poteva trovare aiuto». Ai margini degli appezzamenti coltivati, infatti, la Caritas della diocesi di Nardò-Gallipoli è diventata da tempo un punto di riferimento per chi si trova in difficoltà. «E non si tratta solo di stranieri – sottolinea quasi subito don Giuseppe Venneri – anzi abbiamo molti italiani tra i frequentatori delle nostre tre mense». Oltre a ricevere subito l’offerta di un pasto e le cure per il suo amico, alla Parrocchia Cattedrale di Nardò Musa si ritrovò a vivere una sensazione che aveva sostanzialmente dimenticato: lo trattavano da persona. Gli sorridevano, si mostravano interessati a lui.
Ritornò ancora alla mensa della Caritas. Prima con la scusa dell’amico convalescente, poi lo rese un appuntamento ricorrente. «Noi cerchiamo di aiutare questi ragazzi ad affrancarsi dalla condizione di schiavitù in cui vengono risucchiati attraverso il lavoro nei campi – spiega don Giuseppe – e quando ci siamo trovati di fronte quel giovane timido dai modi così garbati è stato ancora più forte il desiderio di offrirgli una via d’uscita. All’inizio, infatti, lo riaccompagnavamo ogni sera alla baracca dove dormiva, poi lo abbiamo convinto a fermarsi da noi una notte, poi un’altra...». Si erano dati da fare in tanti per Musa. Chi per capire la situazione dal punto di vista del permesso di soggiorno e chi per trovargli un lavoro alternativo alla raccolta sottopagata dei cocomeri. «Una famiglia di qui lo ha accolto nel suo ristorante – racconta Patrizia De Vitis, che ha accompagnato il ragazzo passo passo per mesi – dapprima per fare qualche lavoretto collaterale, poi coinvolgendolo sempre di più. Alla fine, quando nel frattempo si è scoperto che aveva diritto d’asilo politico in Italia, Annamaria e Ugo Filieri lo hanno assunto regolarmente e praticamente adottato come un secondo figlio».
Oggi Musa Yallow ha quasi 25 anni, un lavoro, un reddito, una famiglia di riferimento. Non ha ancora delle amicizie al di fuori della cerchia del volontariato, ma ha da poco preso la patente e questo lo rende più autonomo. Continua a evitare di parlare del passato buio, soprattutto della prigionia in Libia, ma ha cambiato idea sulle cicale: non è vero che gridano. Cantano.