il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2019
Una lunga intervista a Kasia Smutniak
Kasia Smutniak diva non lo è, e non ci si sente. Arriva mezz’ora prima all’appuntamento, anche se l’appuntamento è sotto casa sua; si siede da sola ai tavolini di un bar (trattato da secondo ufficio), non inganna il tempo con il cellulare in mano, non teme di essere riconosciuta (“tanto non capita quasi mai”), ma si guarda attorno, respira la città, sorseggia uno Spritz (“però è leggero, se no mi gira la testa”) e ogni attimo della sua vita lo concepisce come un’esperienza (“altrimenti temo di sprecare il tempo”).
E il tempo recita: martedì compie quarant’anni.
Auguri.
Me li sto godendo e per me è già un salto di qualità. Mi domando solo cosa farò adesso.
Magari la regista.
Troppa responsabilità; non sopporto il giudizio neanche quando ho un provino: vado in crisi, li odio, non li tollero. Comunque mi sono presa un anno lontano dai set.
Rinuncia a dei film per evitare i provini?
Sì, e quello più duro della mia vita è stato con Paolo Sorrentino per Loro; quando è finito, ho pensato: “Se sono riuscita a sopravvivere, non ci saranno problemi con le riprese”.
Addirittura.
Il giorno prima non volevo andare, ho pensato di darmi malata.
Si consiglia con qualcuno?
No, e il problema è uno: non ho frequentato una scuola di recitazione, quindi non so come si affrontano i provini.
Avrà assistito a quelli degli altri.
Mi mette in imbarazzo.
Ha appena girato il remake polacco di “Perfetti sconosciuti”. E in generale Genovese non è contentissimo dei risultati…
A lui non piacciono i cambiamenti rispetto alla sceneggiatura originale, e comunque il miglior finale resta quello italiano.
In Polonia ha lo stesso ruolo dell’originale?
Sì, e dopo che me l’hanno proposto sono sparita per mesi, non trovavo il senso di ripetere la medesima parte. Poi ho incontrato il regista, persona stupenda, ho letto l’adattamento, figo, e ho pensato: “Ma quando ricapita?”
Differenze?
Solo in Italia c’è il fenomeno di incontrarsi esclusivamente per stare a tavola, dove è educazione trattare argomenti neutri: niente calcio, problemi personali, politica; mentre si possono passare molte ore a discutere del cibo.
E quindi?
È interessante vedere come nelle altre culture viene risolto il motivo dell’aggregazione, cosa mangiano, la conversazione dei personaggi…
Di cosa si parla in Polonia?
Degli altri, delle sfighe dei vicini, magari si evitano temi intimi, ma il pettegolezzo è tipico polacco.
Meglio il cibo o il pettegolezzo?
Il cibo, almeno non offendi nessuno (sorride); sul set, in alcune scene, mi sono impuntata: c’erano incongruenze gravi.
Tipo?
Interpreto una polacca che spesso lavora a Bologna, e organizza una cena italiana per gli amici: in una scena scolo la pasta e nel frattempo inizia un dialogo di cinque minuti.
Altro che scotta…
E il regista: “Perché non va bene?”. E io stupita: “Non è possibile, così s’incolla. Cinque minuti non ci possono essere”. Non capivano; prima di decidere se accettare o meno ho chiesto chiaramente quale sarebbe stato il menù previsto per il film.
In che senso?
Le riprese italiane di Perfetti sconosciuti sono durate sei settimane, quattro delle quali seduti a tavola per mangiare sempre gli stessi piatti. Dalla sera alla mattina. Non voglio mai più vedere gnocchi, polpette e zucchine fritte.
Alla fine, in Polonia?
Come primo volevano propinarmi una zuppa di zucchine, e come secondo la pasta.
Altro errore.
Già, ma ho perso.
È molto conosciuta nel suo Paese d’origine?
Non lo so, mi trattano con grande rispetto ma come una straniera; una sorta di animale strano, ogni tanto mi dicono “lì da voi”.
In alcune interviste ha dichiarato “qui da noi”, riferendosi all’Italia…
Per me “da noi” è sia qui che in Polonia.
Da quanto tempo è così?
Per anni mi sono arrovellata su chi sono, e chi sono diventata, mentre ora ho smesso di pormi la domanda. Mi sento tutte e due. Anzi europea.
In quale lingua urla?
Tutte le parolacce in italiano, quelle polacche sono più faticose e poi vista l’educazione rigida dei miei (tutti militari), mi sembrerebbe blasfemo.
Nei sogni?
In differenti lingue, anche in russo; i veri furbi sono i miei figli: quando siamo in Italia, e non vogliono farsi capire dagli altri, parlano polacco; il contrario in Polonia.
E lei?
Ovvio, li rimprovero.
Insomma, lei in Polonia è trattata da straniera.
E non me lo aspettavo, ma in realtà oramai lì mi sento tale: sono lontana da vent’anni, e sono accadute e cambiate troppe situazioni; i miei punti di riferimento sono fermi al 1998.
In Polonia è un’era.
Rispetto ad allora è veramente un altro Paese e non è come Roma che ha la capacità di restare congelata nel tempo (ci pensa). In Polonia ho riallacciato rapporti vecchi di venticinque anni.
E…
Alcuni hanno riscontrato in me caratteristiche simili a quelle di mia madre.
Bene o male?
Sono stupita: una va via da giovane, gira il mondo, fa esperienze e torna al punto di partenza?
I suoi sono contenti della carriera?
Per loro non avere un ufficio, degli orari e degli obblighi era straniante; dicevano: “Che fai? Salvi le persone? Fai ricerca? Cosa?”. Quasi mi trattavano da parassita della società.
In lei ci sono ancora riflessi dell’epoca comunista?
Certo! (Le si illuminano gli occhi). Ho un automatismo inconscio, dal quale non voglio mai sottrarmi: dopo aver preparato il the, non butto via la bustina, la metto da parte per utilizzarla ancora; per gli ospiti ne prendo di nuove.
Altre attenzioni?
Non spreco il pane, ma forse questa è più una tradizione cristiana.
È credente?
No.
Oltre a “Perfetti sconosciuti”, ha partecipato a “Dolce fine giornata”, sempre con un regista polacco.
Girato tutto in Toscana, a Volterra, e parla della paura del momento in cui viviamo, dei migranti, dell’Europa; dell’angoscia rispetto a chi è diverso: una paura che colpisce tutti, anche chi capisce la follia di tali timori.
Lei ha paura.
Ho scoperto di sì, e solo grazie alla lettura di questo copione: è un sentimento viscido.
Da bambina di cosa aveva paura?
Di niente. Al massimo dei ragni.
Özpetek e “Allacciate le cinture”.
Nel film Ferzan ha raccontato una parte di me molto privata: lui sa e io so; ma lui è così: ti vive, entra nella tua vita. E quando trovi un regista così ti devi fidare, devi essere certa che non ti utilizzerà mai contro quella conoscenza.
Responsabilità.
C’è una scena che non scorderò mai, è girata in un ospedale: prima di iniziare siamo entrati in un bagno e giù a piangere. E senza parlare.
Quando si è rivista?
Con Allacciate le cinture non ci riesco, è troppo intimo; di questo lavoro mi interessa molto ciò che accade prima del set, la preparazione, mentre il set, all’alba, al freddo, poi la promozione e certi riti, diventano una rottura.
Alla fine di un film?
Mi prende malissimo: non vado più alle feste dei saluti.
La prenderanno per diva.
Probabilmente, ma lo dichiaro giorni prima, quando inizio con i saluti per evitare il momento imbarazzante dell’ultimo giorno.
Una sua bugia.
(Ride con la testa indietro). Per ottenere una parte in Nelle tue mani di Peter Del Monte: a quel film sono legatissima.
Quale?
Anni prima Peter aveva girato La ballata dei lavavetri, con protagonisti grandi attori polacchi, lui entusiasta dell’esperienza: “Voi in Polonia arrivate dal teatro. Tu quale hai frequentato?”. E lì ho inventato una struttura di Cracovia, compreso il nome del fantomatico direttore.
Perfetto.
La situazione poi è peggiorata durante il provino: “Si vede l’imprinting, hai le basi”. Finite le riprese ho confessato la bugia.
Il suo primo giorno di set.
Con Giorgio Panariello, sorgere del sole, su un lago, posto meraviglioso e io che pronuncio la frase: “Giulio, quando vuoi si parte”. Finita la scena è partito un lungo applauso, gli auguri per l’esordio e lo champagne. Io che pensavo: però, bello, questo lavoro.
Per due volte ha lavorato con Beppe Fiorello.
Un grande, uno che lavora a fondo, s’impegna, serio, e come pochi altri entra nei personaggi. Pochi attori si danno come lui.
Forse Favino…
Ecco, pensavo anche a lui; mentre giravamo Moglie e marito, ero talmente nel ruolo della donna che si trasforma in uomo da preoccupare il mio ferramenta: “Perché cammini come uno scimpanzè?”
A braccia larghe.
Quando ho incontrato Paolo Sorrentino per Loro avevo ancora un taglio di capelli alla David Bowie, mi sono seduta di fronte con le gambe accavallate. E lui: “Sei così?”. Sì. “Ce la fai a tornare donna?”.
I suoi figli si accorgono dei mutamenti?
La grande, per lei è normale.
Ha dichiarato: “Ho sempre la sensazione di perdere tempo”.
Ci sto lavorando, per questo ho preso un anno sabbatico.
È anche per l’educazione militare?
Ho l’ansia di stare in più posti nello stesso momento, di non accontentarmi di quello che sto vivendo, e vivo nella certezza di poter raggiungere qualunque obiettivo. Non mi pongo limiti. Né come donna. Né come polacca. Né come persona di questa epoca.
Competitiva.
No, credo che se uno può raggiungere un livello, allora posso riuscirci, anche se poi non arrivo.
Educazione, dicevamo.
Papà, nonna e nonno militari, mamma medico in una struttura, unica in Europa, in cui i genitori vivevano insieme ai loro bambini con handicap: lì si organizzavano corsi, e tanti piccoli avevano talenti incredibili. (Chiude gli occhi). Le pareti erano colorate, mentre fuori vinceva il grigio.
Ci andava spesso?
Tutti i giorni dopo le lezioni. E quando ho deciso di costruire la mia scuola, l’ho pensata esattamente così: libera e colorata. (Ha da tempo una onlus impegnata in Nepal e intitolata alla memoria del suo compagno Pietro Taricone).
Quanti bambini?
Ne seguiamo 56 con sei insegnanti, tutto pagato da finanziamenti privati e donazioni.
Perché una scuola?
Serve a salvaguardare una cultura, permettere a dei ragazzi di crescere nella loro terra.
Sono passati trent’anni dal 1989.
Non ricordo esattamente il momento di passaggio, ed è curioso perché ho in mente il prima.
E il prima?
Erano normali le file davanti ai negozi, com’era prassi partecipare alle regole della comunità.
Cos’era per lei l’Unione Sovietica?
Come l’America.
Cioè?
Mio padre ha studiato all’Accademia militare di Mosca, quindi fino ai cinque anni ho vissuti in Russia, e lì c’erano oggetti, cibi e abitudini sconosciute in Polonia.
Tipo?
Le banane e i mandarini: era normale regalare frutta a Natale; quando tornavamo in Polonia portavamo dei regali che diventavano oggetti esotici.
Quante lingue parla?
Italiano, inglese, russo, polacco e un po’ il nepalese; le lingue sono il mio vero e unico talento.
Qualcuno a casa sua rimpiange il comunismo?
Nessuno, neanche mia nonna; quando le ho posto questa domanda la sua reazione immediata è stata: “Ora vado al supermercato e posso scegliere”. Si sente libera.
Lei si sente libera?
La libertà andrebbe più difesa, mentre oggi ho la sensazione di continui attacchi, ed è assurdo, ma non se ne parla, perché uno se ne rendo conto solo quando la perde, o l’ha conquistata con la vita.
(Cantava Giorgio Gaber: “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone; la libertà non è uno spazio libero. Libertà è partecipazione”).