il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2019
Viaggio tra gli eroinomani di Bucarest
Il primo passo che faccio scendendo dall’automobile è in mezzo a un tappeto di rifiuti. La scarpa affonda tra l’immondizia. Non siamo in una discarica ma a Ferentari, settore cinque di Bucarest, l’inferno d’Europa. Per arrivarci bisogna abbandonare il centro in direzione sud-ovest. A meno di cinque chilometri dalle strade della movida c’è un’altra via: Livezilor, il girone della droga, dell’eroina. Senza qualcuno che ti accompagni è impossibile entrare in questo budello di cemento custodito da fantasmi che s’aggirano per la strada con gli occhi sbarrati.
I tassisti si rifiutano di accompagnarti in quella che i giornalisti locali chiamano la zona punga saracie, sacca di povertà. Chi abita qui, al contrario, non può andarsene, è incatenato alla miseria, al disagio, alla tossicodipendenza, all’aids. Franco Aloisio, presidente della Fondazione “Parada”, ci fa da traghettatore ma a una condizione: “Niente fotografie. Qui non si può”.
La “scusa” per entrare in uno di questi lugubri casermoni costruiti negli anni Settanta è quella di riportare alla famiglia di Margareta l’icona che era sulla sua bara. Margareta, 43 anni, se n’è andata da pochi giorni, strappata dall’aids, lasciando nelle mani di sua madre, Sami, 13 anni e altri tre fratelli che sono affidati alle cure del padre, alcolista. “Sembra un discorso cinico ma questo – spiega Franco – è il momento buono per portare via Sami da questo buco nero”.
La vita a Livezilor in effetti è tutta in bianco e nero. Non conosce altre tonalità. Le scale per andare al terzo piano sono buie anche in pieno giorno. Mentre salgo faccio attenzione a non pestare qualche siringa. Gli appartamenti di 40 metri quadri costruiti per i dipendenti di una fabbrica di autobus fallita da tempo, ospitano ognuno una decina di persone. Solo una casa su sei ha l’acqua calda e il gas. Non tutte hanno l’elettricità, ma gli spazi esterni dei palazzoni sono affollati di parabole. Non sembrano esserci tante porte. Le cantine sono allagate da anni e piene di ratti. La puzza è incredibile. Ovunque ci sono siringhe e aghi usati. Sami ci aspetta sul ballatoio del terzo piano.
È un ragazzino dallo sguardo scaltro e dolce, con i capelli che gli scendono sulla fronte fino quasi a coprirgli gli occhi. Dentro, in casa c’è un letto matrimoniale per tutti, un forno da campo alimentato da una bombola a gas e un vecchio televisore spento. Non una fotografia della mamma. Non un ricordo. Ad accoglierci è la nonna seduta come una matrona sul letto. A parlare con Franco è, invece, la sorella di Sami. Sembra lei a farsi carico della situazione.
Quando butto un occhio fuori dalla finestra mi accorgo che i rifiuti sono ovunque, persino sugli alberi. Sami è uno dei pochi ragazzini di Livezilor che non ha l’hiv. “Qui si fanno tutti, dai bambini ai nonni. Come vedi – mi spiega Franco – sono abbandonati. Li lasciano qui a morire come topi”. È l’altra faccia di Bucarest, quella che il turista non vede. Quella che non vedono nemmeno i politici locali ed europei. Della capitale della Romania fino a qualche anno fa si parlava solo per il fenomeno dei ragazzi di strada: bambini che vivevano nei canal (così li chiamano) dove scorrono le tubature del teleriscaldamento. Franco mi porta di fronte alla stazione ferroviaria nord per capire di cosa si tratta. In un giardino spunta una botola dove sotto c’è chi ci abita ancora.
“Ormai sono pochi a stare qui. I canal in parte sono stati chiusi e in parte abbandonati. Si contano 1200-1500 persone che sono ancora per strada. Chi viveva lì era considerato un paria. Oggi il vero problema di Bucarest è l’eroina. Da Paese di transito siamo diventati un Paese di consumatori. I dati dell’agenzia nazionale sulle droghe dicono che a fine 2015 c’erano 20mila tossicodipendenti: è un dato in difetto perché quelli registrati sono quelli che si sono rivolti ai servizi. Il 48 per cento erano sieropositivi. La prossima crisi umanitaria a Bucarest ha un solo nome: aids. Tutti i ragazzi che convinciamo a farsi le analisi risultano sieropositivi”. Lo sa bene Marian Ursal, direttore esecutivo dell’associazione “Carusel” che con un’unità mobile percorre chilometri ogni sera per cercare di rispondere alle necessità delle persone. Si occupano di dare un rifugio, un’identità a chi non ce l’ha e proprio per questo non può accedere alle cure del sistema sanitario.
Ma c’è anche chi ce l’ha fatta: Ricky, 20 anni, è uno di loro. Dopo una vita passata nel canal dove ha conosciuto sua moglie, 19 anni, ora vive in una casa occupata con i suoi due bambini. Per Franco è un traguardo, a noi sembra solo un piccolo passo verso una vita “normale”. Nella sua piccola stanza non hanno nemmeno un letto. Dormono su delle coperte gettate a terra. Vivono con altri giovani che hanno abbandonato la strada. Ma almeno hanno un bagno, una cucina, un televisore. Un’altra vita.