il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2019
I suicidi sono calati del 32 per cento rispetto al 1990
Sono in auge vari indicatori per misurare la felicità (o l’infelicità) umana, ma il più attendibile resta il tasso dei suicidi. Che non è un sondaggio sulla fatica o la gioia di vivere bensì un dato hard, che richiede la presenza di un corpo senza vita. Ebbene, le ultime ricerche mostrano che i suicidi diminuiscono a livello globale con l’importante eccezione degli Stati Uniti, dove continuano a crescere. Perché?
Perché nonostante il catastrofismo dilagante promosso dall’industria occidentale della paura, progresso e sicurezza umani continuano ad avanzare, soprattutto fuori dall’Europa e fuori dagli Usa. E perché il modello del capitalismo neoliberale nel quale siamo vissuti dagli anni ‘70 in poi fa acqua da tutte le parti ed è diventata la principale minaccia al benessere fisico e mentale di qualsiasi popolazione. Secondo uno studio recente (https//doi.org/10.1136/bmy.194), la flessione delle morti globali per suicidio negli anni 1990-2016 è del 32,7%, ed è dovuta in massima parte al dimezzamento dei suicidi femminili (-49% contro -23% maschili). Più in particolare, sono le donne di quasi tutti i paesi dell’Asia orientale e sudorientale, Cina e India in testa, a registrare la crescita più ingente della salute mentale, della voglia di vivere. In Cina, la diminuzione del 64% dei suicidi totali è dovuta in larga parte al crollo dei suicidi delle donne sotto i venti anni di età. Dagli anni ‘90 in poi questo tasso si è ridotto del 90%: 500mila vite dell’età della speranza risparmiate, il 25% del totale mondiale dello stesso periodo. Stesso trend in India e altri paesi della regione, sia pure con cifre minori. Paesi che traboccano di nuove generazioni piene di fiducia nel futuro. Chi si riempie la bocca con la retorica delle immacolate liberaldemocrazie contrapposte al dispotismo cinese o alla corruzione indiana dovrebbe riflettere sulle conseguenze di questi dati, che dimostrano come anche in sistemi alternativi al capitalismo neoliberale possano crescere integrazione sociale e stabilità politica. E dovrebbe riflettere anche su un altro motore della diminuzione globale dei suicidi: il caso dei suicidi di persone di mezza età nella Russia postcomunista, decresciuti grandemente dal 2000 ad oggi. Dalla data, cioè, in cui l’avvento della tanto esecrata “era Putin” ha posto fine alla spaventosa impennata suicida degli anni ‘90. Gli anni di Yeltsin e del suo capitalismo liberalmafioso benedetto dall’Europa e guidato dai consiglieri americani. Privatizzazioni e liberalizzazioni a tutto spiano, che hanno fatto più danni al popolo russo della seconda guerra mondiale: iperinflazione, crollo del Pil, povertà, disoccupazione,alcolismo, droga e suicidi che hanno richiesto altri dieci anni, con Putin, per essere alleviate e superate. Ma torniamo alle giovani donne dell’Asia orientale e sudorientale che non si suicidano più. Le ragioni sono abbastanza note. Urbanizzazione ed autonomia economica che hanno fatto crollare i matrimoni combinati, le schiavitù familiari e di clan, le maternità imposte. In una parola, l’emancipazione. Favorita dallo sviluppo economico e da politiche di protezione sociale intraprese da governi di colori disparati, dai nazionalisti indiani, malesi e indonesiani ai comunisti cinesi e vietnamiti. Il trend sui suicidi è coerente con una valanga di altri dati sulla riduzione della povertà, l’aumento del tenore di vita, dell’occupazione, dell’istruzione e dei servizi sanitari in una parte del mondo che supera ormai l’Occidente per Pil e popolazione. Se invece di guardarla dall’alto in basso per non avere creato in due generazioni quelle istituzioni politiche che l’Occidente ha impiegato quasi 300 anni a costruire, provassimo a comprendere i motivi del successo asiatico nel migliorare le basi fisiche e mentali della società, riusciremmo forse a capire meglio le ragioni del deterioramento di queste stesse basi presso di noi, e in particolare nel paese che fino a poco tempo fa ha guidato il mondo occidentale. I suicidi sono quasi raddoppiati negli Stati Uniti degli ultimi due decenni perché in quel paese si è materializzato il detto di Polanyi che il mercato autoregolato, lasciato a se stesso, finisce col distruggere “la sostanza umana e naturale della società”. L’aumento dei suicidi si accompagna negli Usa a una crescita senza precedenti della disperazione sociale e delle malattie indotte da droga, alcol e guerre. Sì, guerre. Le sconsiderate avventure mediorientali post-11 settembre hanno depositato una torma di reduci infermi fisici e mentali che ammonta all’8% della popolazione totale, e che genera alcolismo, consumo di droghe, suicidi e violenze quotidiani. E dei quali nessuno ama parlarne o occuparsene. Accanto ai veterani disperati c’è una vasta classe di lavoratori bianchi impoveriti dal declino dell’industria e dallo strapotere della finanza che alimenta anch’essa, con il consumo di droghe pesanti e la vulnerabilità alle malattie, il degrado generale della salute. E che vota per Trump, visto come protettore invece che carnefice. Ma l’attacco più micidiale sferrato dal mercato alla sostanza materiale della società americana è costituito dalla liberalizzazione mascherata del consumo di droghe pesanti effettuata dalle industrie farmaceutiche fin dall’inizio di questo secolo. Esse hanno cominciato a produrre e distribuire medicinali antidolorifici a base di oppiacei molto più potenti e pericolosi dell’eroina. La complicità dei medici americani ha consentito di espandere la platea dei consumatori legali fino a 8 milioni di individui. L’ecatombe dei morti per overdose ha oggi superato le 65mila unità annuali, contro le 44mila vittime della guerra del Vietnam. Non è un caso che molti lettori abbiano sentito parlare di questo tema qui per la prima volta.