Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2019
La corsa all’oro delle banche centrali
Mentre le prospettive dell’economia globale si deteriorano e si alza la conflittualità commerciale tra Usa e Cina, la domanda di oro connessa alla sua funzione di bene rifugio è in forte ripresa: + 5,2% nel 2018 a 4.655 tonnellate e +8% tendenziale nel 2019. A pilotare la ripresa degli acquisti stavolta non è il settore privato, ma sono le banche centrali nazionali (Bcn) delle economie emergenti.
Circa 374 tonnellate sono finite nei forzieri delle Bcn di Russia, Cina, Turchia per un controvalore di circa 15,7 miliardi di dollari. Si tratta del più grande incremento di riserve dal 1971. La Russia è impegnata da anni in un progetto di ricostituzione delle riserve auree, colpite negli anni ’90 dal collasso dell’Unione Sovietica; la Bcn russa in circa 10 anni ha raddoppiato gli acquisti di oro arrivando a detenere 2.168 tonnellate, una quantità vicina alle riserve di Banca d’Italia (2.450 tonnellate).
Numerosi analisti ritengono questa corsa al metallo giallo una strategia geopolitica di de-dollarizzazione, cioè di diversificazione delle riserve valutarie attraverso una ridotta detenzione di dollari.
Si tratta di un obiettivo realistico? Se guardiamo ai dati che rappresentano l’entità e l’andamento negli ultimi 20 anni delle riserve di oro delle Bcn delle prime 9 economie del mondo, si direbbe di no.
Da soli, Usa, Francia, Germania e Italia detengono il 60% delle riserve ufficiali di oro. Negli ultimi 40 anni nessuna di queste Bcn a parte alcune operazioni della Banque of France ha venduto oro sul mercato.
La vastità delle riserve auree delle Bcn occidentali è spiegata dall’adesione di questi Paesi nel periodo pre-1914 al regime valutario del Gold Standard, basato su un cambio fisso tra oro e divise nazionali. Questo sistema imponeva un adeguamento continuo delle riserve auree al fine di garantire la convertibilità della valuta in oro. Gli Usa hanno mantenuto da soli la convertibilità fino al 1971 nell’ambito degli accordi di Bretton Woods e questo giustificherebbe il livello enorme delle riserve, che raggiunsero un picco di 20.000 tonnellate nel 1957. Nei 25 anni di convertibilità tra dollaro e oro, Italia, Francia e Germania hanno continuato
ad accumulare oro fino
ai livelli attuali.
Tuttavia il Regno Unito e il Giappone, entrambi aderenti al Gold Standard detengono oggi modeste quantità di oro. La Bcn britannica liquidò gran parte delle riserve (circa 2mila tonnellate) a seguito della fine di Bretton Woods, mentre le riserve giapponesi, azzerate dopo la sconfitta della Seconda Guerra Mondiale, sono state ricostituite lentamente.
I big 4 detentori della maggioranza delle riserve auree hanno un peso preponderante delle stesse rispetto al totale delle riserve valutarie, che è crescente nel tempo e raggiunge circa l’80% nel caso degli Usa. Questo dato non sorprende, visto che gli Stati Uniti emettono direttamente la valuta di riserva globale che rappresenta l’asset principale alternativo all’oro.
Per gli altri Paesi si evidenzia un regime diverso in cui le riserve di oro sono una piccola parte, decrescente, delle riserve valutarie. Per Cina e Giappone il ratio basso dipende dall’enorme entità delle riserve totali, accumulate in periodi recenti per via di surplus commerciali persistenti.
La Russia è riuscita a modificare sensibilmente questo ratio dai minimi del 2007 (2,4%) al 18,5% del luglio 2019 ottenendo un moderato effetto di diversificazione dal dollaro.
Per altri big player come Cina e India, sperare di ottenere attraverso l’accumulo di oro un’apprezzabile de-dollarizzazione è pia illusione.
I livelli di preponderanza che l’oro ha nelle riserve delle Bcn occidentali inoltre sono irraggiungibili.
Ce n’è di strada da fare per fuggire dalla dominanza del dollaro all’interno del sistema finanziario globale.