la Repubblica, 11 agosto 2019
Intervista a Luca Formenton. Parla dei suoi ospiti
«È stato difficile lasciarla andare, non è una casa come le altre». Luca Formenton, erede della dinastia di editori fondata da Arnoldo Mondadori, si emoziona. La Verbanella, prestigiosa villa sul lago Maggiore, non appartiene più alla sua famiglia: è stata venduta, per una cifra vicina a cinque milioni di euro, a Donatella Versace. Parlarne al passato fa effetto, sebbene sia stato lui a decidere di separarsene: «Quella villa, costruita a Meina alla fine dell’Ottocento dal direttore d’orchestra Luigi Mancinelli e comprata negli anni Venti da mio nonno Arnaldo, ha ospitato premi Nobel, intellettuali e artisti. Dalle sue finestre, spalancate sul lago, si sono affacciati D’Annunzio, Mann, Simenon, Montale, Hemingway, Guttuso, Ungaretti... Hanno discusso di letteratura Valentino Bompiani e Lavinia Mazzucchetti, critici raffinati e autori popolari. In pratica, un secolo o quasi di società letteraria».
È vero che ospitò anche Walt Disney?
«Abbiamo una bellissima foto che lo testimonia. Lui e suo fratello Roy vestiti di bianco insieme a mio nonno. Era il 1935 e i diritti italiani di Topolino erano nelle mani dell’editore fiorentino Mario Nerbini. Nella villa di Meina, dopo un lungo corteggiamento, Walt Disney firmò il contratto con la Mondadori».
E Thomas Mann?
«Fu ospitato insieme alla moglie nella casetta che il nonno costruì in giardino. La prima volta venne nel 1947. I suoi rapporti con la Mondadori erano iniziati nel 1933 e si erano interrotti cinque anni dopo per l’accordo tra Mussolini e Hitler che vietava la pubblicazione in Italia degli autori invisi al regime nazionalsocialista. Già nel 1945 i rapporti si riallacciarono. Non erano solo professionali, ma anche di affetto come dimostrano le lettere conservate dalla fondazione Arnaldo e Alberto Mondadori. Credo che in quelle stanze abbia lavorato anche sulle bozze del Doctor Faustus».
Nella prefazione al “Dialogo con Goethe”, Arnoldo Mondadori riferendosi all’accoglienza della stampa italiana nella villa per Mann scrisse: “Si vide quel giorno come la civiltà europea fosse passata intatta, anzi temprata, entro il cerchio di fuoco della sua stessa barbarie”. A cosa si riferiva?
«Alla barbarie della seconda guerra mondiale. Villa Mondadori tra l’altro, era stata involontaria testimone di uno dei primi eccidi».
In che modo?
«Nell’autunno del ’43 le SS rastrellarono gli ebrei che si trovavano sul lago Maggiore. Da tempo risiedevano nella zona, famiglie sfollate da Milano o stranieri alloggiati negli alberghi. Nessuno di loro immaginava quello che poi accadde. Dopo averli uccisi li gettarono nel lago. Le vittime dell’Hotel Meina furono buttate in acqua a una cinquantina di metri da casa nostra. Luigi, il custode di allora, vide i nazisti sulla riva bucare i cadaveri con la baionetta perché i corpi affondassero. La sua testimonianza è stata raccolta da Marco Nozza in un libro che pubblicammo con “Il Saggiatore"».
La storia e la letteratura intrecciate, da sempre.
«Durante la guerra la famiglia si trasferì a Meina perché Milano era troppo pericolosa. Mia madre raccontava come nel luglio del ‘43 salirono sul terrazzo per assistere ai bombardamenti che, seppur a distanza di sessanta chilometri, erano perfettamente visibili».
Finita la guerra la villa si aprì al mondo. Chi furono i suoi ospiti?
«Basta leggere le firme sopra il grande camino in pietra, una specie di registro delle presenze: Ernest Hemingway, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti e Georges Simenon, Almerina e Dino Buzzati, Piero Chiara, Oreste del Buono, Mario Soldati, Salvatore Quasimodo, Francesco Messina… Venivano artisti, scrittori, intellettuali, ma anche autori molto popolari come Salvator Gotta, autore del bestseller Il Piccolo Alpino durante il fascismo. In questo la villa rispecchiava in pieno la casa editrice, che era grande proprio perché da subito seppe mescolare alto e basso».
Chi diede inizio alla tradizione delle firme sul camino?
«Avrei dovuto chiederlo a mia madre prima che morisse, ora posso solo avanzare delle ipotesi. Credo che il primo sia stato Hemingway».
Che altre tracce del passato conserva quella villa?
«La scala che porta al piano superiore era una galleria fotografica: decine e decine di ritratti. Le foto originali adesso sono in Fondazione, insieme a immagini 3D delle firme sul camino, ma a Donatella abbiamo dato le riproduzioni. È rimasta affascinata dalla storia della villa. È un bene».
Perché?
«Mi sarebbe dispiaciuto vendere a qualcuno disinteressato al suo vero valore, che è culturale non architettonico. Non è una delle ville più belle del Lago Maggiore. Mio nonno non fu molto sensibile».
In che senso?
«La struttura originaria, quella di Mancinelli, era una deliziosa villa Liberty. Mio nonno fece costruire due torri e poi chiudere il terrazzo, per le esigenze della nostra famiglia.
Donatella vuole riportarla per quanto possibile allo stato originale».
Perché ha deciso di vendere?
«Non è stato facile. C’erano i miei ricordi di infanzia, legati alle tante estati trascorse sul Lago Maggiore, alle cene di famiglia, ai giochi nel bosco, alle risate, anche quelle irriverenti come quando zia leggeva ad alta voce le bozze di Horcynus Orca. Ma sono passati molti anni, ormai ci riunivamo lì solo per qualche occasione speciale.
Nient’altro. A sessantasei anni non si può restare incatenati ai ricordi e poi una casa ha bisogno di essere abitata, ha bisogno di vita».
Ora vivrà una nuova stagione.
«La creatività è nel suo destino. La Verbanella è nata con la musica, per quasi un secolo ha ascoltato le parole di scrittori ed editori, adesso è il momento dell’alta moda».
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