la Repubblica, 11 agosto 2019
Cosa succede in Kashmir
SRINAGAR (KASHMIR INDIANO) – Entrando nell’ufficio del Commissario distrettuale aggiunto a Srinagar si è accolti da volti cupi tesi e preoccupati. Almeno 30 persone, uomini e donne di diversa estrazione provenienti dalla valle, affollano uno spazio pensato per ospitarne sei. La ressa è dovuta alla presenza in quella stanza dell’unico mezzo di comunicazione a disposizione dell’intera popolazione del Kashmir, dopo che le linee telefoniche, i cellulari e tutti gli altri mezzi di comunicazione sono stati bloccati da quando il governo indiano ha abrogato la norma che concedeva lo statuto speciale al conteso Stato di Jammu e Kashmir.
Il 5 agosto il Parlamento indiano ha approvato una legge che abolisce l’articolo 370 della Costituzione e divide lo stato che confina con il Pakistan e la Cina in due. Mentre il Ladakh buddista è diventato un territorio dell’unione privo di assemblea legislativa, Kashmir e Jammu a maggioranza musulmana sono stati trasformati in un territorio dell’unione che avrà un’assemblea legislativa. Il governo indiano sostiene che l’iniziativa servirà a promuovere lo sviluppo e a porre fine al terrorismo nella regione, ma la realtà è che, dal momento della decisione, la valle del Kashmir continua a essere isolata.
Il 7 agosto, l’emittente statale Doordarshan Kaeshir ha diffuso la notizia che negli uffici dei commissari distrettuali era stata isituita una linea di emergenza, tramite cui la popolazione può comunicare con i familiari residenti fuori dalla valle. Per Ghulam Ahamad, 75 anni, si è riaccesa la speranza di mettersi in contatto con il figlio che vive nel Regno Unito. «Spero di riuscire a contattare mio figlio, sarà preoccupato per noi quaggiù», ha detto Ahmad a La Repubblica nella speranza che l’ufficio statale offrisse anche l’opportunità di fare chiamate internazionali. Tra la gente in attesa di telefonare si discute dell’abolizione dell’autonomia e del blocco conseguente alla decisione.
A Srinagar, la capitale estiva dello Stato, sono state erette barricate e posti di blocco ogni cento metri, e le autorità hanno impedito le preghiere del venerdì nella storica moschea di Jamia Masjid. Con le comunicazioni interrotte per il sesto giorno consecutivo, l’ufficio in cui è stata installata la linea di emergenza si è trasformato in un luogo di dibattito in cui anche dei non kashmiri sono venuti a comunicare con i familiari. «Questa gente non merita di essere autorizzata a contattare i familiari e andrebbero trattati come il loro governo ha trattato noi», dice un ventenne venuto a telefonare alla sorella che studia in una università indiana a Gurgaon.Ma altre persone hanno obiettato: «No, così non ci sarebbe differenza tra noi e loro. Né la nostra identità né la nostra religione lo permettono. Il nostro profeta ci ha insegnato a trattare gli esseri umani con dignità e attenzione, qualunque sia la loro fede. È quello che dovremmo fare anche con chi non è dei nostri».
Le telefonate sono brevi e per lo più sono di genitori che si informano sulle condizioni dei figli che si trovano fuori dello stato. Gli studenti kashmiri in passato sono stati oggetto di aggressioni da parte di a gruppi di destra nelle città indiane. Solo recentemente, lo scorso febbraio, dopo l’attentato suicida di Pulwama in cui sono morti più di 40 agenti della Riserva centrale della Forza di polizia (Crpf), i kashmiri sono stati cacciati dalle città indiane e molti hanno subito pestaggi.
«Abbi cura di te. Noi stiamo bene. Passerà anche questa. Ma ricorda, non appena capisci che non sei più al sicuro torna nella valle, senza preoccuparti del costo del viaggio», dice Said Showkar Ahmad alla figlia. Ahmad, che abita nel centro di Srinagar, paragona la mossa politica indiana a quello che Israele ha fatto ai palestinesi. «La politica del governo indiano è simile a quella degli ebrei. Faranno qui quello che hanno fatto gli ebrei ai musulmani in Israele», dice Ahmad osservando che India e Israele intrattengono rapporti cordiali. «Deve vedere come parlano tra loro Modi e Netanyahu».
Come Ahmad, la quarantacinquenne Safina, che abita fuori Srinagar, è venuta per parlare con il figlio che aveva detto alla famiglia che sarebbe tornato a casa il 6 agosto per la festività musulmana di Eid. «Mio figlio doveva venire ieri, ma non è arrivato. Sono preoccupata e ho sfidato il coprifuoco e le restrizioni per venire nell’ufficio del Commissario distrettuale per sapere dove si trova», racconta col viso rigato di lacrime. A proposito della decisione del governo indiano, Safina dice che non riusciranno a eliminare i sentimenti dei kashmiri. «Il governo sbaglia se pensa di poter soffocare le nostre emozioni e i nostri sentimenti rispetto alla lotta per la libertà del Kashmir», dice Safina e aggiunge che la continua repressione sta uccidendo ogni giorno i kashmiri. «È meglio se ci bombardano piuttosto che infliggerci la tortura quotidiana delle restrizioni e il blocco delle comunicazioni», aggiunge asciugando le lacrime. Non solo chi ha figli che studiano o vivono fuori dalla valle è angosciato, anche i kashmiri che lavorano a Srinagar hanno i loro problemi, come il ventisettenne giornalista multimediale Vikar Syed, che viene da Pulwama, nel Sud del Kashmir, una zona di forte instabilità. «Ho parlato con i miei l’ultima volta cinque giorni fa, da allora non ho idea di cosa stia succedendo nel mio villaggio. Non so come sta mia madre. Mi starà aspettando. Non voleva che partissi perché temeva che la situazione peggiorasse», ha detto Syed a La Repubblica. Dice che è preoccupato per il fratello minore che studia in un college locale. «Spero che stia bene, è tutto quello che posso far al momento. Con le restrizioni imposte e il coprifuoco raggiungere Pulwama vuol dire sfidare la morte».
*** A Srinagar almeno un civile è rimasto ucciso e decine sono stati feriti in seguito all’intervento delle forze dell’ordine in occasione delle proteste contro la decisione del governo. Venerdì un centinaio di persone provenienti da Soura, una località di Srinagar, sono state attaccate dalle forze dell’ordine e molte sono rimasti ferite. «Era una protesta pacifica autorizzata da un funzionario di polizia di alto grado. Però quando siamo arrivati a Ali Jan Road, la polizia ci ha sparato contro e molti sono rimasti feriti», ha dichiarato un diretto testimone, aggiungendo che alcuni hanno riportato ferite da arma da fuoco. Intanto di molte località della valle continua a non sapersi nulla.
«A causa del blocco delle comunicazioni è difficile avere informazioni sui feriti nel corso degli interventi della polizia contro i civili. Si tratta del peggior coprifuoco in atto in Kashmir in termini di blocco delle comunicazioni», ha detto un giornalista che preferisce restare anonimo. Ha aggiunto che neppure durante la rivolta del 2016 erano state introdotte misure del genere. «All’epoca le linee telefoniche funzionavano. Questa è una situazione senza precedenti».
Le proteste nella regione proseguono e la rabbia cresce. «L’abolizione dell’articolo 370 è un attacco alla nostra esistenza», dice l’ottuagenario Mohammad Shaban e aggiunge che l’India ha utilizzato mezzi brutali per frenare i sentimenti indipendentisti e che le pressioni internazionali potrebbero aiutare i kashmiri.
«Le restrizioni sono tali che non lasciano volare nemmeno una mosca. Speriamo che la comunità internazionale oda il nostro appello e ci salvi dal genocidio». Per il trentacinquenne Adil Ahmad, che viene dal Khanmoh nel sud del Kashmir però è il Pakistan che ha il potere di intervenire. «Spero che il Pakistan accorra in nostro aiuto altrimenti diventeremo come i Rohingya e l’India ci ucciderà come Myanmar ha ucciso musulmani birmani».
Come Ahmad, anche Shafat, studente dell’Università del Kashmir che vive a Srinagar, spera nel Pakistan: «Hanno portato la voce della gente del Kashmir in ogni contesto di dibattito, speriamo che lo facciano ancora e ci tirino fuori da questo campo di concentramento, perché è così che ci sentiamo».
Tra i kashmiri è reale il timore di perdere la propria identità e dell’egemonia del partito Bjp al potere. «Hanno la chiara intenzione di insediare qui dei forestieri e di cambiare la demografia dello stato, il che a sua volta cambierà la natura della disputa su questa regione», dice Shafat e aggiunge che il governo centrale esercita un’egemonia tale da non risparmiare neppure coloro che «governavano lo stato in suo nome». «Hanno messo in carcere i leader tradizionali come Mehbooba Mufti e Omar Abdullah, l’ex primo ministro dello stato. Immaginate cosa deve provare un comune cittadino nei confronti di questa gente del Bjp». Shafat indica inoltre che la mossa politica condurrà anche a un aumento della criminalità nella valle. «Ogni giorno ci sono stupri e omicidi nell’Uttar Pradesh e nel Bihar. I forestieri verranno insediati lì, che garanzie abbiamo che le nostre donne siano al sicuro».