Corriere della Sera, 11 agosto 2019
Il ritorno della frontiere
Per uno scherzo del destino di quelli cui l’Europa è maestra, i trent’anni della sua riunificazione sembrano destinati a coincidere – giorno su giorno – con un autunno imprevedibile come pochi nella storia recente. Trent’anni fa a inizio novembre cadeva il muro di Berlino. Fu il culmine di tre mesi durante i quali cento milioni di persone camminarono, letteralmente, fuori dal comunismo e verso un mondo dai confini quasi invisibili. Trent’anni dopo si direbbe che l’Europa abbia deciso di celebrare quei giorni ricordando a se stessa cosa significa il suo passato: le fratture interne alla società prodotte dall’odio ideologico, le frontiere dalle sbarre abbassate, l’incertezza. Se davvero l’Italia voterà in ottobre o inizio novembre, nei giorni in cui trent’anni fa decine di migliaia di berlinesi premevano ai varchi nel Muro, lo farà in un autunno da cui oggi nessuno sa dire quale Europa possa uscire.
Perché il ritorno delle frontiere vistose, lente e difficili da attraversare non è solo una metafora. Accadrebbe per la prima volta dal 1989 fra Paesi europei se davvero la Brexit, la prima secessione di uno Stato dall’Unione europea, sarà davvero «hard» come la minaccia il nuovo premier di Londra Boris Johnson per il 31 ottobre. Tornerebbe una costosa frontiera doganale a Dover e attraverso la Manica. Tornerebbe soprattutto a dividersi l’Irlanda, fra repubblica a Sud e regno a Nord, abbattendo il primo pilastro degli accordi di pace di ventidue anni fa. Uno choc economico, lo strappo senza accordi della terza economia europea e della capitale finanziaria del continente, coinciderebbe così con uno politico: dall’Irlanda del Nord alla Scozia, una hard Brexit rimetterebbe in discussione l’integrità territoriale del Regno Unito: ennesima dimostrazione – come rivela anche il caso catalano, come sosteneva Umberto Bossi nel 1994 – che l’appartenenza all’insieme europeo è la migliore garanzia di unione territoriale dei singoli Paesi che la compongono.
È possibile, anche probabile, che la Brexit segua di poco o si consumi a cavallo di nuove elezioni in cui Boris Johnson cercherà una sua maggioranza nazionalista. Ma la Gran Bretagna e l’Italia non sono le uniche due grandi eretiche d’Europa che si avvicinano alle urne. A metà ottobre lo farà anche la Polonia, demograficamente il quinto Paese della Ue post-Brexit, ideologicamente divisa lungo linee simili a quelle italiane o inglesi: nazionalisti contro cosmopoliti, identitari contro liberali, partigiani della società chiusa e omogenea contro chi chiede tolleranza e diversità. I primi, i nazionalisti al potere di Legge e Giustizia, sono favoriti. La sola certezza oggi, come trent’anni fa, è che ciò che accade in Polonia non si ferma in Polonia: è un segno del tempo, magari un segno del futuro.
Allora, nel 1989 e negli anni seguenti, l’America di George Bush padre (e poi di Bill Clinton, di Bush figlio, di Barack Obama) seguiva gli eventi in Europa con una priorità: tenerla unita e alleata a sé. L’America di Donald Trump per la prima volta invece non si limita a corteggiare le forze della disunione o del nazionalismo: dai sovranisti d’Italia a Boris Johnson, al premier ungherese Viktor Orbán che si autodefinisce «illiberale». Trump medita di fare di più: aprire una guerra commerciale con l’Unione europea colpendo al cuore l’industria di Italia, Francia e Germania. Le procedure sono pronte a Washington perché da novembre possano scattare nuovi dazi all’import di auto europee. Le ritorsioni a tappeto della Casa Bianca per i sussidi all’industria aeronautica europea (dove pure l’Italia è in seconda fila) sono a uno stadio anche più avanzato. Sviluppi simili possono esserci anche sui prodotti agricoli e altre ritorsioni aleggiano perché alcuni governi europei (Italia inclusa) osano provare a far pagare un po’ di tasse ai colossi del Big Tech americano.
Trump affronterà lo scontro con Bruxelles soprattutto se nel frattempo avrà raggiunto una tregua con la Cina. Ma per l’Europa non è comunque un buon momento. In Italia l’economia resta come paralizzata, anche dall’incertezza politica. L’industria tedesca, in recessione da tempo, sta dando segnali pessimi questa estate e forse non è solo un virus passeggero: la prima economia d’Europa si scopre in ritardo nella curva tecnologica, dall’auto elettrica al 5G, mentre per l’export sembrano finiti i trent’anni gloriosi di globalizzazione partiti proprio in quelle notti dell’autunno 1989.
È su questo sfondo che l’Italia arriva alle sue elezioni anticipate, con un bilancio pubblico difficile e tutto da scrivere. L’Europa ci arriva con nuove leader in carica dal primo novembre sia alla Commissione che alla Banca centrale europea. Entrambe, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde, molto apprezzate. Entrambe da mettere alla prova in un’Europa in cui ogni passo falso, trent’anni dopo, può costare davvero caro.