Corriere della Sera, 11 agosto 2019
Intervista a Bob Woodward (sta preparando un altro libro su Trump)
Bob Woodward è di nuovo al lavoro. L’anno scorso nel suo libro «Fear», «Paura», pubblicato in Italia da Solferino Libri, ha raccontato, «il primo e il secondo atto della presidenza Trump». «Adesso sto preparando il terzo e quarto atto», dice uno dei giornalisti più importanti e conosciuti nel mondo.
Ha 76 anni, è un uomo minuto e sorridente. Nel 1972 condusse con Carl Bernstein l’epica inchiesta giornalistica sullo scandalo Watergate che portò alle dimissioni di Richard Nixon. «Certo che sono sempre in contatto con Carl. Ci telefoniamo, ci mandiamo mail, viene spesso a trovarmi qui a Washington» e indica il suo studio, carico di foto, ricordi. Cinquant’anni di carriera personale e di storia collettiva.
«Paura» comincia con una scena surreale. Il consigliere Gary Cohn fa sparire un documento dalla scrivania di Donald Trump. Un modo per dimostrare quanto lo staff fosse preoccupato per le mosse impulsive del presidente. A un anno di distanza è cambiato qualcosa?
«Quando è uscito il libro so che Trump ha detto: “Questo non sarebbe dovuto accadere” e so che avrebbe voluto licenziare subito Cohn. La Casa Bianca in preda alla follia. Riparto da lì, ma per ora non dico niente perché ci sono delle cose importanti che stanno accadendo e non sono ancora pubbliche».
Ci può dire almeno chi ha più influenza su Trump in questa fase? La figlia Ivanka, il genero Jared Kushner? Alcuni sostengono che Steve Bannon abbia ancora molta presa...
«Bannon? No Bannon è andato. Non mi pare proprio che ci sia grande comunicazione con Trump. Per il resto aspettiamo l’atto terzo e quarto: ci sto lavorando».
Quante possibilità ha Trump di vincere anche nelle presidenziali del 2020?
«Ne ha, ma nel caso sarebbe una vittoria di strettissima misura. Sono cambiate tante cose dal 2016».
Parliamo allora dei democratici. Sarà Joe Biden lo sfidante di Trump?
«È davvero troppo presto per dirlo. Non scommetterei non dico un dollaro, ma neanche un centesimo su nessun nome. Non mi voglio nascondere, lo dico per esperienza. Faccio un solo esempio: nell’agosto del 1991 discutevamo su chi potesse essere il prossimo presidente. Bill Clinton non rientrava neanche tra i primi cinquanta della lista. Era un oscuro governatore dell’Arkansas e nessuno pensava a lui per la Casa Bianca».
Ma qual è il suo giudizio sul confronto politico che si sta sviluppando tra i candidati democratici?
«Il tema fondamentale è l’esercizio del “potere presidenziale”. Restiamo su Clinton. Si presentò dicendo: io userò i miei poteri presidenziali per mettere a posto l’economia per tutti voi. E fu un messaggio molto attraente, perché tutti gli elettori sono affascinati da questo “potere presidenziale”. Invece i recenti dibattiti televisivi tra i candidati democratici mi sono sembrate discussioni buone per una sottocommissione del Senato sulla Sanità. Tutte queste minuzie, distinzioni...Nessuno di loro sta parlando da presidente».
Che cosa pensa della giovane deputata Alexandria Ocasio-Cortez, la vera novità dell’ultimo anno?
«È comparsa come un lampo sulla scena. La sua presenza fa bene alla politica americana, sta muovendo le acque, sta mettendo in campo diverse idee. Il suo successo mostra come anche nella politica si stia affermando la cultura delle celebrities. Noi dei media amiamo personaggi così: giovani, capaci di parlare in modo diretto».
C’è chi teme che lo scontro tra la Speaker Nancy Pelosi e Alexandria Ocasio-Cortez possa danneggiare il partito democratico. È d’accordo?
«Ma andiamo. Invece è una buona cosa. I contrasti sono l’essenza della nostra democrazia. Del resto sta accadendo qualcosa di simile anche in Italia, no? Con questo vice primo ministro che si muove parecchio, un po’ come Trump».
Salvini?
«Sì, Salvini, non è ancora primo ministro vero? Però torniamo agli Stati Uniti. Ha un’ultima domanda?».
Andiamo alla conclusione di «Paura». L’avvocato John Dowd convince il presidente a non testimoniare davanti al Super procuratore Robert Mueller, perché, dice, «Trump è un bugiardo fottuto». Nel marzo scorso il rapporto Mueller ha concluso che «non ci sono prove sufficienti per dimostrare la cospirazione tra Trump e i russi». Il Russiagate non è stato un Watergate...
«No, per ora non è un Watergate. Ma anche in retrospettiva, non avrei potuto scegliere un finale migliore per il “secondo atto”. Gli avvocati hanno fatto il possibile per non fare testimoniare il presidente. E probabilmente questa è stata la strategia che finora lo ha salvato, perché i legali sanno che Trump è “un fottuto bugiardo”. Ma proprio per questo dico che la storia non è finita».