Corriere della Sera, 11 agosto 2019
Il sovrano di Pokomo rivuole il tamburo del potere. Ma Londra non glielo dà: «Al massimo ve lo prestiamo»
Un re senza tamburo: se potesse conferire con la «collega» Elisabetta che sta in Inghilterra, certamente Sua Maestà Makorani-a-Mungase VII parlerebbe di un oggetto meraviglioso chiamato ngadji. Così come a Buckingham Palace hanno i gioielli della Corona, nella valle del fiume Tana hanno (avuto) un magnifico tamburo sacro. «Leggenda vuole che il suono fosse come il ruggito del leone – ha raccontato il sovrano a un inviato del Washington Post che è andato a trovarlo in Kenya —. Il suo battito si propagava di villaggio in villaggio e induceva tutti all’ascolto. Era la fonte di ogni potere e l’orgoglio di noi Pokomo».
È stato così fino a 117 anni fa, quando il prezioso ngadji (ricavato da un enorme tronco cavo di mzinga) fu prelevato (c’è chi dice con l’inganno) da un commerciante di legnami norvegese, Jens J. Anderssen detto il Toro, che il Protettorato Britannico dell’Africa Orientale aveva incaricato della sorveglianza sulla popolazione locale. Il Toro e i suoi uomini nel 1902 caricarono sul battello a vapore il gigantesco tamburo e sparirono. Era il tempo in cui l’attuale Kenya con altri territori erano colonie di Sua Maestà di Londra. Fu lì, proprio nella capitale britannica, che nel 1908 ricomparve (e tuttora rimane) il prezioso reperto, uno degli 8 milioni di oggetti che oggi fanno parte della collezione del British Museum. I Pokomo chiedono la sua restituzione. Il museo dice no: «Al massimo ve lo prestiamo».
Nella valle del fiume Tana, i Pokomo sono rimasti in duecentomila. In maggioranza si sono convertiti all’islam e al cristianesimo. Il tamburo non ha più il valore sacro di un tempo, e gli abitanti hanno problemi molto più impellenti: salute, scuole, cibo, lavoro. È in quella parte di Kenya che forse si sono perse le tracce di Silvia Romano, l’operatrice umanitaria italiana rapita nel 2018.
Una terra dove vivere non è semplice. Chi baderebbe al tamburo? Ci sarebbe lo spazio e i modi per preservarlo? Il British Museum, come altri musei in Occidente, si considerano custodi del patrimonio dell’umanità e non certo eredi di pratiche neoimperialiste. Gli oggetti «sono preservati e possono essere visti ogni anno da milioni di persone», è la risposta ufficiale dei responsabili del British. Il tamburo sacro però non è manco esposto. Il fratello del re, che vive a Liverpool, è l’unico Pokomo che ha avuto la possibilità di vederlo, e di fare rapporto ai suoi fratelli in Kenya: «È in ottimo stato».
Certo il problema rimane. Chi deve custodire l’ngadj i? Forse non è un caso che la scrittrice egiziana Ahdaf Soueif poche settimane fa si è dimessa dal consiglio del British Museum, citando le radici colonialiste e la ritrosia «nel far conversare il Nord e il Sud del mondo».
La Francia di Emmanuel Macron ha promesso la restituzione di diversi tesori africani che si trovano nei tanti musei l’Oltralpe, anche se finora sono volati soprattutto buoni propositi. La Gran Bretagna sembra ancora frenata su questo sentiero. E così, nel silenzio di un magazzino londinese, resta il grande ngadji con il suo ruggito di leone, che nessuno sente più.