Robinson, 10 agosto 2019
Lunga intervista a Ferdimando Camon
VANITYX
C’è qualcosa di biblico in Ferdinando Camon, che fa pensare al detto: «La vendetta sarà mia». Eccolo quest’uomo che veleggia verso gli 84 anni, ancora solido nel corpo e saldo nelle convinzioni, alzare la mano, stringerla nel pugno, come fosse l’ultimo e decisivo ammonimento rabbioso.
Contro chi? E perché? Verrebbe voglia di chiedersi.
Forse contro me stesso, dice. E racconta di un sogno ricorrente che si trasforma in incubo. Racconta delle sedute inutili con Cesare Musatti e di quelle più proficue con Giuseppe Fara. Racconta della casa paterna. Degli anni trascorsi in quel mondo. Un quarto di secolo passato in campagna, in una casa senza pavimento, senza luce elettrica, una vita senza libri, senza amici, senza amiche, senza cinema, senza cultura, senza tv, senza lingua italiana.
Davvero è stata questa la sua stagione giovanile?
«È stata anche questo».
Eppure i suoi romanzi descrivono un mondo contadino in cui la famiglia è esaltata e descritta come una santa istituzione, mentre suo padre, apprendo, ha tentato di diseredarla.
«Non ha tentato, mi ha diseredato».
Cosa è riuscito a scatenare in quell’uomo?
«Mio padre e mio fratello si presentarono a casa mia con un notaio di Bologna e mi hanno diseredato.
Avevo appena pubblicato Un altare per la madre, loro avevano letto il libro e ne erano rimasti mortalmente offesi».
Perché?
«Racconto la vita faticosa e stremata della campagna dove si lavorava anche di domenica e di notte. Non volevano che si sapesse. Si sentivano traditi e umiliati. E a tradirli era uno della famiglia».
È questo che la ossessiona? Il fatto che la sua scrittura sia legata al tradimento?
«Tutta la mia scrittura è un tradimento. Con i romanzi contadini ho tradito il mondo della campagna, rivelando la sua miseria al mondo borghese. Con i romanzi sulla psicoanalisi ho violato il tabù della seduta: la seduta è indicibile, è un mondo a parte che è e deve restare segreto. Io ho rivelato la seduta parola per parola. Con i romanzi sul terrorismo ho tradito il loro mondo che avevo frequentato per procurarmi materiale. La polizia grazie a essi è risalita alle loro responsabilità. Sono un grande traditore».
E non si sente a suo agio.
«È vero, ma penso anche che il romanzo valga più di me e dei miei personaggi traditi».
A proposito del suo primo analista, ossia Cesare Musatti, lo rimprovera per quel suo desiderio di farsi pubblicità attraverso i pazienti più noti.
«Non so se lo lasciai perché essendo lui a Milano e io a Padova c’era troppa distanza e quindi troppa fatica per raggiungerlo. Certamente era anche un chiacchierone. Mi raccontava che Pasolini era stato per un periodo breve, in tutto sette o otto sedute, in analisi da lui. A un certo punto, saltò fuori il problema dell’omosessualità e Pier Paolo disse: “Non ne parlerò perché è natura”. Musatti rispose: “Ne parlerà comunque, anche senza volerlo”. Pasolini entrò in una crisi di angoscia e non si presentò mai più».
In cosa sbagliava Musatti?
«Non doveva raccontarmi quegli incontri con il suo paziente e non doveva anticipargli una spiegazione che in quel momento l’altro non era in grado di accettare».
Anche Musatti a suo modo aveva tradito la fiducia del paziente?
«Lo spinse di fatto ad abbandonare l’analisi e sono convinto che questo gesto fu uno dei motivi della morte di Pasolini. Mi disamorai di Musatti e lo mollai».
Ma non mollò la psicoanalisi?
«Passai a un altro, Giuseppe Fara, col quale mi trovai benissimo. Ne ho fatto il protagonista del mio libro La malattia chiamata uomo».
Non getta via niente di quello che le accade?
«Come per il maiale, se posso uso ogni sua parte».
Chi è l’analista?
«Di solito lo si accosta al prete nel confessionale. Il prete ha un ruolo facile, ascolta e assolve. L’analista ha un compito più difficile: ascolta e guida ad assolversi».
Lei si è assolto?
«Ci provo da una vita. Non ho mai capito se la scrittura assolva o condanni chi la pratica».
I sogni sono parte del suo universo narrativo. Ne fa di ricorrenti? Interpretarli l’appaga?
«Sogno sempre, ogni notte. Capire i sogni mi placa».
Tra Freud e Jung chi sceglie?
«Freud senza alcun dubbio. Jung è come costruire un edificio con le nuvole».
Una suggestione senza fondamenta?
«C’è qualcosa di indimostrabile e di oscuro nelle sue ricerche. Pensi al suo allievo Ernst Bernhard».
Perché le viene in mente?
«Fu l’analista, tra l’altro, di Fellini. La sua analisi era totalmente inaffidabile».
Lei ha anche insegnato?
«Ho fatto l’insegnante per tutta la vita. È un lavoro bellissimo, seducente e mal pagato. Finché lavori ti danno un finto stipendio, quando smetti ti danno una finta pensione».
Dove ha insegnato?
«Nei licei, ma avrei voluto insegnare all’università. Mi spettava, per legge, un incarico, ma la “mafia universitaria” lottò per anni con delibere per impedirlo. Arrivarono a falsificare un verbale di facoltà. Andai al ministero, scoprii che avevano il verbale falsificato, lo feci notare e successe una cosa inaudita: mi cacciarono fuori con un urlo».
Ho letto con curiosità un libro intervista con Pietro Ingrao. Cosa c’entrava con lui?
«Quando il Pci rinunciò a ogni legame con le sue origini i telegiornali dell’epoca trasmisero tra l’altro l’immagine di Ingrao a testa china e in lacrime. Da quel momento desiderai incontrarlo, parlargli e chiedergli se il comunismo fosse davvero morto per sempre».
E lui accettò di vederla?
«Concordammo una serie di incontri a casa sua a Roma. Abitava a ridosso della borgata di Pietralata. Lì aveva insegnato Pasolini e ambientato le storie dei suoi ragazzi di vita. Ma non c’era più niente di pasoliniano. Ingrao mi spiegò che la borghesia urbana allargandosi aveva espulso i sottoproletari senza lavoro».
Le spiegò anche qualcos’altro?
«La conversazione con Ingrao è durata più di un anno. Mi interessava discutere sul massimo evento del secolo: la fine del Comunismo, speranza dell’umanità. Ci siamo visti più volte a casa sua. Io sostenevo: il Comunismo è morto. Ingrao sosteneva il Comunismo è immortale. Lo incalzavo e volevo incastrarlo, portarlo sulle mie posizioni. Ma è stato impossibile: lui era convinto che il Comunismo cambia sempre, ma non muore mai. Più che un politico, un uomo di fede. E la fede gli sconsigliò di pubblicare allora il nostro dialogo. Lo accontentai. Un quarto di secolo dopo nell’archivio Ingrao sono state ritrovate queste conversazioni e Alberto Olivetti e Maria Luisa Boccia, che ne curano l’organizzazione, hanno pensato valesse la pena rendere pubblica questa testimonianza».
Restò deluso da quel ripensamento?
«Era nel suo diritto anche se avevo l’impressione che ciò che diceva fosse molto meno di quello che pensava. Forse per questo Ingrao ha tentato le vie della poesia. La poesia suppliva all’impotenza della politica».
Ne “Il mestiere di scrittore” (edizioni di Storia e Letteratura) lei si confronta con una serie di autori dell’Italia del secondo dopoguerra. Che stagione è stata?
«Alle spalle avevano il fascismo, davanti lo sviluppo industriale. Non ci fu una risposta univoca. Ho frequentato Moravia, ogni volta che andavo a Roma finivo a casa sua. Idem con Pasolini. Lo stesso con Pratolini. Vedevo Volponi e Fortini a Milano. E Roversi a Bologna. Fortini era il mio confessore. E Zanzotto viveva non distante da casa mia».
Lo incontrava di frequente?
«Spesso. Di solito era Zanzotto che veniva da me, guidando la sua Volkswagen Maggiolino. Un vero barbaro. Se aveva fame, entrava in cucina e si faceva da mangiare; per esempio minestra e fagioli e un’insalata; ma poi prendeva l’insalata e la buttava dentro la minestra, mescolando il tutto».
Ne dà un’immagine insolita.
«Era privo di inibizioni. Una volta nel mio frigorifero vide due fiale da iniezione contro la tonsillite, costosissime. Guardò il prezzo e mi chiese: ma tu te le fai? No, di sicuro. E perché? Troppe controindicazioni. Me le dai? Ma hai una tonsillite?
C’è sempre qualche infiammazione in giro per il corpo. Gliele diedi. Due giorni dopo telefonò, se le era fatte. Dissi: e il risultato? Mi è aumentata l’ansia, rispose».
Accennava alla morte di Pasolini. Non le sembra che sulla sua persona si sia speculato un po’ troppo?
«Pasolini è un problema per me. Fu lui a chiamarmi una mattina, verso le cinque, per chiedermi se poteva scrivere una prefazione al mio primo romanzo. Non sapevo che Garzanti glielo avesse dato in lettura. Poi scrisse una prefazione alle mie poesie. Poi dedicò un saggio al mio primo libro di saggi. Dopo la sua morte, ho scoperto una chiara allusione a me in Petrolio e mi sono chiesto: ma pensava ancora a me? E perché?
Non ho una risposta».
Tra il Gruppo ’63 e quelli che si formarono attorno alla rivista “Officina” chi butterebbe giù dalla torre?
«Il Gruppo ’63, perché Officina la realizzarono Pasolini insieme a Leonetti e a Roversi».
C’è una sua frase che mi colpisce: ci sono libri per i quali occorre essere degni per poterli leggere.
Come la spiegherebbe?
«Non tutti possono leggere tutti i libri. Ci sono libri sacri che non vanno toccati da mani impure. Ci sono libri delicati che non possono essere capiti da cervelli rozzi».
Di solito, la soglia oltre la quale si cambia il pensiero sulla vita e sulla morte è gli ottant’anni. Ha anche lei avvertito questa mutazione di giudizio?
«Mi viene in mente Einstein, il grande turbatore con le sue teorie sull’inizio e sulla fine. Einstein crede in un Dio-Natura, alla Spinoza. Io ho bisogno di un Dio-Persona, perché ho sete di giustizia. Sia per punire che per premiare».
Molto biblico.
«Supponga che io sappia di dover essere punito. Se dovessi morire perché questa giustizia si compia, sarei pronto a morire per essere dannato».
Anche in eterno?
«Anche».
E il Dio misericordioso?
«Qui accanto a me c’è un orfanotrofio dove lavorava una inserviente che voleva un bambino in adozione e quando le han detto: Signora la sua pratica è conclusa, può sceglierne uno, lei ha risposto: Quello.
Era l’unico bambino cieco di tutto il gruppo. Dentro di me penso che la madre naturale lo aveva abbandonato perché era cieco, mentre la madre adottiva lo voleva perché era cieco».
Morale?
«Penso che il Dio-Natura di Einstein se ne frega. Vorrei che un Dio-Persona la premiasse».
Il Dio cristiano, lei è cristiano?
«Cristiano, sì».
Cosa pensa di Papa Francesco?
«Sono bergogliano».
Cosa teme della vecchiaia o cosa le dà gioia?
«Non mi dà gioia niente, mi terrorizza la morte. Un terrore cieco, buio, totale, onnipresente.
Come vorrebbe essere ricordato?
«Chi le dice che voglia essere ricordato? Forse, mi piacerebbe che Un altare per la madre fosse stampato in edizione ultraeconomica. Uscì in tantissime lingue. Per uno scrittore i suoi libri, quelli in cui crede davvero, sono il lasciapassare per l’aldilà»