Robinson, 10 agosto 2019
Boris Vian tra alcol, musica e scrittura
Cognome?» «Vian, maresciallo». «Nome?» «Boris». «Straniero? Armeno? Un altro di questi meticci?» «Veramente, maresciallo, sono nato nel 1920 a Ville-d’Avray, nel dipartimento della Seine- et- Oise. Mio padre si chiama Paul, mia madre Yvonne. È quasi certo che Vian venga da Viana, dall’Italia, dunque, la nostra sorella latina...». «Ah. Per caso siete il cugino dell’ammiraglio Philip Vian?». «Sfortunatamente no, vengo da una famiglia di scultori, e sono vicino di casa di Rostand, che mi ha iniziato alla letteratura». «Ah, voi fate della letteratura, lo sospettavo». «Se è per questo faccio un bel po’ di cose, maresciallo. L’ingegnere, l’autore, il traduttore, il musicista, il giornalista, il cantante, il critico di jazz e attualmente il direttore artistico di una casa discografica...». «Capisco. Ma sapete come si dice? Buono a tutto, buono a niente...».
È tutto vero, quello che Boris Vian dice di sé in questo autoironico Dialogo con un maresciallo scritto poco prima che un attacco del suo cuore ballerino se lo portasse via ancora giovane, esattamente sessant’anni fa. Tutto vero, compreso l’equivoco sull’origine, italiana e non russa: anche se il ragazzone alto, dinoccolato, dall’incarnato chiaro e dal sorriso fra il mite e l’eternamente stupefatto, poteva facilmente essere scambiato per un uomo del profondo Nord. Tutto vero: soprattutto la consapevolezza che proprio l’eclettismo estremo costituiva la ragione della sua unicità ma anche il suo grande limite.
Dopo le prime incerte prove narrative, e dopo la precoce scoperta della passione per la tromba – mentore Claude Abadie, altro tipo strano, di giorno funzionario di banca, di notte musicista – “il caso Vian” esplode grazie a un falso, un romanzo intitolato Sputerò sulle vostre tombe e attribuito a un sedicente autore afro- americano dalla pelle bianca, Vernon Sullivan. Sullivan è in realtà Vian, il romanzo è scritto in tre settimane per scommessa, o meglio, per divertimento, in ossequio al gusto di Vian per la sfida: qui si tratta di dimostrare che anche un francese può scrivere un noir di valore. Il successo è grande e immediato, e un paio di scandali danno una mano. Dapprima il romanzo è denunciato per oscenità da una congrega di bacchettoni, poi un assassino ne abbandona una copia accanto al cadavere della vittima. Segue processo che guadagna a Vian un’enorme popolarità. Sarà il primo e ultimo autentico successo della sua carriera letteraria. Carriera che nel frattempo si è arricchita di un romanzo, La schiuma dei giorni, che molti considerano il suo capolavoro. È la storia dell’amore tragico fra un lui e una lei che si ammala quando lui le dona un “nenufaro”, una ninfea che la renderà sempre più dolce e più evanescente. E mentre lei si spegne, le pareti della casa rimpiccioliscono e la luce abbandona Parigi. Straziante ai confini del patetico, capace di parlare ai cuori adolescenti, l’amico Raymond Queneau lo definisce «il più commovente romanzo d’amore contemporaneo». Ma la società letteraria, al tempo dominata da Camus e Sartre ( che pure Vian stimava), resta freddina. Come dire: il nostro caro Boris è tanto bravino, simpatico, intuitivo ma da qui ai piani alti ne corre. Nel frattempo Vian, che sino ai 27 anni ha effettivamente lavorato come ingegnere, lascia gli impieghi seri e si consacra all’arte. Comincia a suonare al Tabou, dove Juliette Gréco legge poesie. Il 1947 segna la nascita ufficiale della leggenda dei club di Saint- Germain- des- Prés. Vian è il cuore di una vita notturna lontana anni luce dalla movida degli anni Duemila, il principe di musica, poesia, arte, danza e dell’alcol che scorre a fiumi in una Parigi capitale di un mondo giovanile che si è appena liberato degli orrori della guerra e che sta ritrovando il piacere di combattere per cambiare il mondo. «Boris Vian era il demone trascinante che aiutava gli altri a ritrovare il sentiero perduto dell’abbandono dionisiaco. Eppure, fissandolo negli occhi accesi da lampi imprevedibili, si scopriva che il suo destino era quello di restare escluso dal giardino d’inventata baldoria che sapeva scatenare». Così Marcello Pagliero, l’attore di Roma città aperta, poi regista di fama in Francia, anche lui icona di quel periodo irripetibile. Un demone trascinante con un fondo di irredimibile malinconia, Vian: il presagio, forse, di una parabola umana destinata a consumarsi in una successione di frenetiche fiammate, attraversando in una manciata d’anni l’esaltazione del successo, lo scandalo, il culto e infine l’oblio.
Vian è malato, e sa di esserlo. Ma, ricorda ancora Pagliero, resisteva a tutte le raccomandazioni, perché «soltanto quando si ficcava fra le labbra la tromba diveniva di una scatenata vivacità». A La schiuma dei giorni seguono altri romanzi di Vernon Sullivan, e poi L’autunno a Pechino e Sterpacuore, un altro bellissimo romanzo che Ennio Flaiano avrebbe cercato, senza riuscirci, di portare sul grande schermo. La stima degli amici cresce, Vian diventa Satrapo del Collegio Patafisico. Vian traduce classici e moderni americani, scrive di jazz, e intanto compone commedie, poesie, canzoni. Nel ’ 54 firma Il disertore, che Mouloudji esegue proprio il giorno in cui le truppe francesi vengono sconfitte in Indocina. L’orgogliosa dichiarazione del giovane renitente alla leva diventa l’inno mondiale del pacifismo, con innumerevoli versioni in decine di lingue, da Fossati a Joan Baez. Georges Brassens si sbilancia: se le canzoni di Vian non esistessero, il mondo perderebbe qualcosa. Ma anche se ha lanciato un messaggio politico inequivocabile, Vian resta uno spiritello bizzarro.
A Parigi impazza la moda italiana, e lui traduce a modo suo Tu vuo’ fa’ l’americano di Renato Carosone, che diventa Tout fonctionne à l’italiano, una sequenza di sterotipi declinati in salsa ironica. Si sa, fra Italia e Francia un po’ di sana competizione non guasta: d’altronde, qualche mese prima Totò aveva messo alla berlina gli esistenzialisti, cupi, tristi, indecifrabili e nemici del sapone ( Totò all’inferno, regia di Camillo Mastrocinque). Alto e basso continuano a convivere in Vian, che nel ’ 57 scrive I costruttori d’imperi, la sua opera teatrale più alta e ispirata. È la storia di una famiglia che abita al piano terra di un condominio e che, minacciata da sconosciuti “loro”, fugge di piano in piano verso la sommità dello stabile. Mano a mano che si sale, la minaccia aumenta, lo scenario si fa più miserabile, la famiglia si disgrega. “Loro” sono forse gli Schmürz, creature indefinibili, malate, sanguinanti, simili a lebbrosi colpiti da una piaga biblica. Ma chi è lo Schmürz? Schmürz è una parola che Vian usava nel lessico famigliare per definire un oggetto imprecisato, un po’ come il Sarchiapone di Walter Chiari.
Secondo il critico Guido Davico Bonino, lo Schmürz è «la Vita, tutta la vita che soffre e sanguina, muta e si ribella». Forse quella vita che Vian ha voluto affrontare e dominare con tutta la forza e l’energia di chi sapeva di avere troppo poco tempo a disposizione.