Robinson, 10 agosto 2019
Com’è cambiata la Cina in 10 anni
L’inquinamento arretra in modo spettacolare: evviva, allora è possibile vincere questa sfida. La censura avanza implacabile, affiancata da forme sempre più sofisticate di bio-mappatura e controllo su noi umani, affidate all’intelligenza artificiale. Un “Blade Runner” dai cieli azzurri. Delle impressioni fortissime e contraddittorie mi assalgono al mio ritorno in Cina dieci anni dopo. Mi sento un provinciale primitivo quando azzardo il gesto di pagare con quel pezzetto di plastica che chiamiamo carta di credito, anacronistica, pateticamente superata.
Il futuro è già la Cina. Ci eravamo distratti per un attimo e qualcuno tra noi ancora pensa che i cinesi “ci copiano”; ma un pezzo di questa economia ha sorpassato l’America, che se ne rende conto di colpo e tenta di correre ai ripari quando forse è troppo tardi. Insieme all’orgoglio avverto tra i miei amici cinesi anche tante inquietudini. Vera culla del sovranismo, anche sul piano politico la Cina ci ha preceduti in molti esperimenti. Per esempio la religione riscoperta e valorizzata come pilastro nella ricostruzione di un’identità nazionale forte. In questa Pechino che fu la culla dell’ateismo di Stato ai tempi di Mao Zedong, oggi visito templi buddisti sempre più affollati, con la benedizione ufficiale di Xi Jinping (anche Confucio, il profeta laico, è stato arruolato con la stessa funzione). Da Israele – oltre alla tecnologia della videosorveglianza e dei controlli biometrici – questa Cina ha mutuato un’altra idea: finanzia viaggi di “scoperta delle proprie radici” ai giovani cinesi della diaspora, un regalo costoso ma lungimirante, per garantire che la vasta comunità d’oltremare (ormai quasi cento milioni fra emigrati ed espatriati temporanei) sia partecipe dello stesso revival nazionalista della madrepatria.
Cinque giorni di cielo azzurro a Pechino… e senza neppure l’Olimpiade, è la prima sorpresa che mi accoglie al mio ritorno. Esattamente dieci anni fa chiudevo la mia esperienza cinese. Avevo inaugurato il primo ufficio di corrispondenza di Repubblica a Pechino nel luglio 2004, ci sarei rimasto fino al mio trasferimento a New York nel luglio 2009. Da allora ci sono tornato circa una volta ogni anno. Spesso come inviato al seguito di un presidente degli Stati Uniti, Barack Obama o Donald Trump, per seguire qualche vertice bilaterale o dei summit tipo il G20. Altre volte per rivedere i miei tre figli adottivi. Non ho mai veramente staccato la presa, l’attenzione verso la Cina è rimasta costante. Però gli anniversari ti rendono più sensibile ai cambiamenti; ti costringono a fare bilanci. Quest’ultima visita mi impone di misurare la distanza percorsa. La Cina è cambiata tantissimo in questi dieci anni e non ce ne siamo resi conto abbastanza. Forse anche perché ha eretto barriere più alte che ostacolano la circolazione di notizie e di idee nei due sensi. Loro subiscono la censura a casa propria, ma anche noi abbiamo sofferto di una rarefazione delle informazioni. L’elenco dei colleghi americani a cui hanno negato visti d’ingresso si allunga e include alcuni tra i massimi esperti della Cina come Nicholas Kristof del New York Times; e colui che fu il mio mentore, il grande inviato ed ex rettore della facoltà di giornalismo di Berkeley, Orville Schell.
L’inquinamento in ritirata? I miei cinque giorni di cielo azzurro e di aria respirabile potrebbero essere una coincidenza dovuta a una meteo fortunata, dei venti benefici che spazzano via lo smog. Ma luglio è un mese difficile, la temperatura sale molto, ricordo estati opprimenti con afa e inquinamento che si fondevano in una miscela tossica. Fece eccezione il 2008 per via dei Giochi olimpici: un evento-svolta, che doveva consacrare il nuovo status internazionale della superpotenza cinese agli occhi del mondo. Allora le autorità – era presidente Hu Jintao – presero misure draconiane: molte settimane prima dell’apertura dei Giochi chiusero le fabbriche nel perimetro urbano e della periferia allargata; le automobili private vennero soggette a pesanti limitazioni; molti uffici pubblici mandarono in vacanza forzata il personale per ridurre la popolazione residente e quindi i consumi energetici. Dieci anni dopo, gli amici cinesi e stranieri che risiedono a Pechino mi confermano una nuova realtà. Non è più soltanto in occasione di grandi eventi internazionali che scatta l’operazione “cieli azzurri”. È un caso da manuale in cui i metodi di un regime autoritario funzionano. Un caro amico cinese – in questo diario evito per lo più di citare nomi – mi racconta la sua vicenda personale. È un piccolo imprenditore nei pannelli solari. Fa dunque un’attività ambientalista. Però, siccome viene catalogata come una “fabbrica”, anche la sua azienda è stata colpita dall’editto governativo: ha dovuto spostarsi molto lontano dalla capitale. Lui obietta che così facendo il governo sta trasferendo l’inquinamento da una regione all’altra. Però la sensazione è che molte cose si muovano nella direzione giusta. A livello aneddotico c’è l’invasione di Tesla e altre auto elettriche per le strade di Pechino, incentivata dalla “targa verde” che le esime dai divieti di circolazione. Niente gilet gialli per protestare contro queste misure, per le strade della capitale cinese. A livello macro: la Cina attraverso le sole fonti rinnovabili produce ormai più elettricità pulita di quanta la Germania genera con tutte le fonti, energie fossili comprese.
Il balzo avanti della Cina in questo decennio è ancora più spettacolare nella padronanza delle tecnologie digitali. Ormai il cinese medio usa una sola app dello smartphone, per esempio associata alla messaggeria Weixin ( detta in inglese WeChat, sostituisce il nostro Whatsapp che è bandito), per una serie infinita di funzioni della sua vita quotidiana. Al momento di pagare, in un negozio o ristorante, ma anche al posteggiatore e in molti servizi pubblici come i trasporti, basta aprire lo schermo di Weixin con il QR, il crittogramma o codice a barre bidimensionale.
Quel codice viene visto dal lettore ottico dell’esercente e autorizza il pagamento. Si stima che il volume di pagamenti su smartphone in Cina sia il centuplo che negli Stati Uniti. Il centuplo, sì: è la misurazione fatta da uno dei massimi esperti del settore, Kai Fu Lee ( l’autore di A.I. Superpowers: China, Silicon Valley, and the New Orld Order). Quando io lasciai Pechino eravamo ancora nella fase della rincorsa, oggi l’allievo ha superato il maestro. Il futuro è la Cina di oggi, noi siamo il passato.
Il balzo avanti nella modernità abbraccia un nazionalismo in ascesa, e questo mi riserva altre sorprese. Nella mia Pechino di dieci anni fa era uno status symbol del giovane ceto medioalto andare a fare la spesa negli ipermercati Carrefour o da Ikea: un modo per omologarsi all’Occidente e un segnale di esterofilia nei consumi, per distinguersi dal popolo della provincia e delle campagne. Oggi Carrefour è in difficoltà, soppiantato da agili start-up cinesi che offrono la consegna a domicilio e ti salvano dagli ingorghi nel traffico. Dal car-share al commercio online, tutti i pionieri occidentali del digitale perdono colpi. Amazon chiude i battenti perché sgominata da Alibaba; Uber non regge la concorrenza con gli omologhi cinesi. Dietro questa ritirata delle aziende occidentali c’è una buona dose di protezionismo, occulto o palese, talvolta sfacciatamente illegale ( Trump non ha torto su questo).