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 2019  agosto 10 Sabato calendario

Intervista a Enrico Vanzina

Il sapore del mare per Enrico Vanzina è un viaggio dentro al tempo. Il tempo è una lunga estate che dura da almeno cento film che ha scritto, prodotto, immaginato con il fratello Carlo, il regista, sceso un anno fa all’ultima fermata della vita. «Questa è la mia prima estate senza di lui», dice, lasciando che il vuoto riempia la stanza- studio romana dei Parioli, arredata dai copioni, dalle fotografie, dai premi, dai quadri, come si addice alle dinastie che hanno fabbricato il cinema italiano, cominciando dal grande Steno, il padre, che fu burattinaio della commedia comica, muovendo le maschere di Totò, Aldo Fabrizi, Albero Sordi, Ugo Tognazzi, fino a Paolo Villaggio e Renato Pozzetto. Una eredità diventata una fortuna di ricordi. E con i ricordi anche la malinconia. «Il mio amico Leo Benvenuti, sceneggiatore di Amici miei, una volta mi disse una cosa fulminante: la vita sono venti estati utili. È vero. Dai venti ai quarant’anni accade tutto quello che deve, il resto sono piccoli dettagli o grandi remake». Compresi l’amore che brucia e gli occhi che incantano. Tutto indimenticabile. Come l’incontro con Federica, la sua futura moglie, un agosto del 1975 davanti al mare di Forte dei Marmi. O la prima volta che ha visto il sorriso di Mariangela Melato, a una cena d’estate, a Castiglioncello, con il padre capotavola e Gassman mattatore. O l’indimenticabile Sylva Koscina a Fregene. O la giovanissima Isabella Ferrari.
Racconta: «L’altra sera ero in Versilia. Proiettavano sulla spiaggia una copia restaurata di Sapore di mare che fu l’inizio della nostra carriera. C’erano trecento persone sulle sedie a sdraio. C’erano le stelle, un po’ di vento e la risacca. Mi sono emozionato tantissimo a rivederlo. Erano passati 36 anni, ma sembrava girato ieri». Dice: «Il film è una fotografia che cristallizza l’estate e le sue scoperte». Con la tavola narrativa disposta al gran completo: l’amicizia, la scoperta dell’amore, l’indipendenza dai genitori, il dolore del tradimento, il primo bacio, la felicità, la sconfitta. Fino alla scena in cui Virna Lisi balla con il figlio e, quando lui le chiede: «Mamma com’era ai tempi vostri?», lei gli risponde: «Mi pare di ricordare che ci batteva forte il cuore».
Tutto semplice, il racconto, come qualche volta va la vita. Magari un attimo prima di svelarsi per intero. «Per me e Carlo il film capolavoro dell’estate è sempre stato Il sorpasso di Dino Risi. Se ci pensi c’è tutto in uno spazio piccolissimo, ma molto profondo: due giorni, due amici, l’automobile, la strada, il mare, il senso della vita».
Con il nero dell’incidente finale a illuminarla. Cambiando in un istante il destino dei due protagonisti, Gassman e Jean- Louis Trintignant, transitati dalla solitudine del Ferragosto in una Roma deserta, fino alla spiaggia dove la giovinezza ancora ignara di Catherine Spaak balla il twist di Guarda come dondolo, in mezzo alla folla estiva. E la bella Italia del Miracolo economico profuma di crema solare e di avvenire. Per concatenazione di ricordi Enrico Vanzina arriva a Ennio Flaiano, amico e maestro del padre, ospite fisso la domenica a pranzo. Racconta: «C’erano Age e Scarpelli. Io ero un adolescente presuntuoso e avevo detto che da grande avrei voluto fare lo scrittore. Così Age mi disse bè hai davanti a te il premio Oscar Flaiano, fagli una domanda. E io, rosso di vergogna, gli chiesi: perché si scrive? Allora Flaiano cambiò faccia, si tolse gli occhiali, si prese un tempo per guardarmi dritto, mi disse: per sconfiggere la morte». Aggiunge: «Non l’ho mai dimenticato da allora. E oggi che se ne sono andati così tanti, so quanto sia vero».
Dunque, la vitalità dell’estate che porta nuvole nere.
«In mezzo a tante nuvole bianche, questo è il suo fascino. Perché è un tempo in cui si concentrano i sentimenti, le emozioni e anche la noia. È d’estate che diventi grande, quando il mondo ordinario si allarga, conosci persone nuove, leggi Tolstoj, respiri a pieni polmoni».
È la vita che si mette in viaggio.
«Riviste oggi le mie venti estati utili sono state una giostra».
Iniziate con i viaggi veri?
«I più veri e i più belli. A diciotto anni con Claudio Risi e una Giulietta Sprint scassatissima che per noi era una Ferrari, fino in Scandinavia a caccia di svedesi».
Un classico della commedia.
«Diventata una divertente catastrofe. In panne tre volte con la macchina e in bianco con le avventure: le prime ragazze le abbiamo rimorchiate al ritorno a Imperia».
Anche il ritorno fa parte del viaggio.
«In quel caso salvò il nostro secondo tempo. L’anno dopo con il furgone a Capo Nord per guardare il sole a mezzanotte. E quello successivo, finalmente in America. Avevo ventun anni, mi ero appena laureato in scienze politiche. Era il regalo di mio padre».
Come nel “Laureato”. Tu eri Dustin Hoffman.
«Purtroppo non c’era con me Anne Bancroft, la favolosa signora Robinson. In compenso avevo in tasca Sulla strada di Kerouac e quella era la mappa del mio viaggio da New York a Los Angeles su una Chevrolet con musica e paesaggi indimenticabili».
Quando torni tuo fratello Carlo è diventato assistente di Mario Monicelli sul set dell’“Armata Brancaleone”.
«E lì inizia la nostra avventura nel cinema».
Dice Dino Risi, nelle sue memorie, che si fa cinema per tante ragioni, la principale sono gli occhi delle donne.
«È vero. Anche se il cinema l’ho respirato dall’inizio.
Ha coinciso con la mia vita, cominciando dal primo amore, che era Barbara, la figlia di Mastroianni, lei tredici anni, io quindici».
Il cinema è stata la tua comunità?
«Tutto il cinema italiano era una comunità. Oggi ci sono autori solitari e piccolissimi gruppi separati tra loro. Nanni Moretti non parla con nessuno.
Sorrentino e Garrone non si fanno mai vedere e non si frequentano. Mentre prima c’era uno scambio continuo. A Castiglioncello avevano casa Sordi e Gassman. Noi andavamo tutte le estati. C’erano Monicelli, Marcello Marchesi, Gina Lollobrigida.
Passavano Tognazzi e Raimondo Vianello con Sandra Mondaini. Nino Rota certe sere suonava il pianoforte. E veniva Federico Fellini, alto alto, che quando incontrava mio padre lo prendeva in braccio gridando: Stenino!».
Si conoscevano da prima della guerra.
«Dai tempi del Marc’Aurelio, la rivista. Mio padre se lo vide arrivare un giorno in redazione senza una lira, senza un lavoro: mi chiamo Federico. Cosa sai fare?
Disegno. Fammi vedere. Fellini fece vedere. E mio padre gli disse: sei assunto. Federico non se lo è mai dimenticato».
Fellini aveva casa a Fregene.
«Sì, al villaggio dei pescatori. Lui e Flaiano presero casa per primi. Li seguirono Moravia, Suso Cecchi d’Amico, Lina Wertmüller, Nanni Loy, Gillo Pontecorvo. Tutto il cinema di sinistra era lì. C’erano discussioni, nascevano idee, nascevano copioni».
E il grandissimo principe De Curtis?
«Totò girava in Cadillac con le tendine. Aveva comprato una barca, ma siccome aveva paura, la seguiva in macchina guardandola navigare da lontano. Lui era un solitario suo malgrado. Un giorno la città di Napoli gli diede un premio. Mio padre andò alla cerimonia in teatro e lo trovò in camerino che piangeva perché di tutto il cinema italiano c’era solo lui in sala».
Fu grande solo a futura memoria.
«È stata la nostra ultima maschera nazionale. Ma gli hanno fatto i monumenti solo post mortem».
Le estati di oggi ti ispirano?
«Ma esistono ancora? Facciamo tutti vacanze brevissime, isteriche, attaccati al telefono e alle mail, sempre reperibili. Quella lunga parentesi della villeggiatura cechoviana non esiste più».
È il mondo parallelo che ci assedia e ci inghiotte.
«Un tempo d’estate potevi pure recitare la vita di un
altro, dire che eri scapolo anche se eri sposato, oppure ricchissimo, anziché uno spiantato».
La pura commedia all’italiana, come “La spiaggia” di Alberto Lattuada, un piccolo capolavoro sulle identità nascoste.
«Esatto. Oggi verresti scoperto in un minuto grazie ai social».
Estati senza più misteri.
«Estati piene solo di grottesco. Sabaudia è passata da Moravia a Totti e Malagò. Capri è diventata un quartiere di Napoli. Castiglioncello un Autogrill. In spiaggia i ragazzi si stordiscono di house music, spritz e applaudono al tramonto. A me quell’applauso un po’ mi fa ridere e molto mi fa incazzare».
Sarà che passati i sessant’anni ogni tramonto è un piccolo presagio.
«Forse. Ma preferisco ancora guardarlo in silenzio, con l’amore accanto. E pensare che a quelle estati utili ne manchi ancora qualcuna».