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 2019  agosto 10 Sabato calendario

L’estate prima degli anni 80

Mi piacerebbe, giuro che mi piacerebbe, trascorrere agosto rifugiandomi in un posto delle fragole fatto di nostalgia autoassolutoria. Vorrei sentirmi avulso da questo curioso incidente della Storia per cui il reggaeton ha preso il posto di Piero Focaccia, Diego Fusaro di Moravia, Bruno Vespa di Bruno Vespa.
Sarei entusiasta di vergare compunto una lista completa del “dove siamo finiti”, magari adornata dall’immagine di Alcide De Gasperi in spiaggia, con la grisaglia addosso, accanto a quella di quellolà mentre insegue scampoli di eterosessualità sul bagnasciuga.
Vorrei dar fondo al bianco e nero, citare alla rinfusa Flaiano e Il sorpasso, Buzzati e la Spaak, Nando Martellini e Nando Martellone, quello di Boris con il suo tormentone trash “Bucio de culo”.
Invece.
Invece sono sempre rimasto ai margini dei rivolgimenti epici. Avevo un anno nel ’ 68 e dieci nel ’ 77. Non ho fatto il Classico. Quando mi danno del radical chic penso all’assonanza con il quasi omonimo brano dei Freak.
Perché sono un figlio spaiato e tardivo degli anni Ottanta.
E mi fanno, chiedo venia, vomitare.
La condanna di chiunque interfacci la propria vita con l’adolescenza altrui ( genitoriale, non sentimentale: mica sono Berlusconi) è l’illogica passione per l’immagine che hanno mutuato, cospargendola col miele, di ere geologiche a te tristemente note.
Come di Mussolini sono rimaste le paludi bonificate, la tredicesima, i treni in orario, cioè leggende completamente slegate dalla realtà, la percezione dei roarin’ eities è quella di un’estate lunga dodici mesi in cui il presidente della Repubblica era Claudio Cecchetto e il Paese godeva di un prolungato e dolce riflusso ( gastrico) che dello sprofondo antistante il guardo ancora esclude.
Si stava peggio quando si stava meglio.
Anzi: si stava qui già allora. Ebbri di un lessico umano che avvelenò i pozzi di Campari Orange. Con Ramazzotti nel bicchiere e nei walkman. Soffusi da un’alea di lacca che staccava pezzi di Polo mentre Beppe Grillo staccava biglietti su biglietti e riceveva la giusta remunerazione in banconote di piccolo taglio. Prima di cercarsi nuovi pubblici. E di regalarli ad altri più scaltri di lui.
C’era tutto. Una specie di prequel.
L’Italia post- bellica, casomai, era stata l’errore.
Gli italiani brava gente. Le file di Cinquecento sull’Aurelia, il melone incassato lungo la riva del mare, i bimbi urticati dal sole e sbiancati dagli scarichi della Montedison ( a sud) o della Solvay ( a nord). La ricerca di un vago decoro. La coscienza di classe e l’imperativo quasi categorico di cambiarla, costasse pure dolore e spavento. La Rai paternalista eppure gioiosa. Bartali e Coppi. Billi e Riva. Pavese e Liala. Il bianco e nero. Il rosso, e il nero. Il nero, Guareschi, che ricolora il rosso per ragioni di cassetta cinematografica. I leoni della commedia. I leoncini come Tognazzi e Manfredi, che erano pure meglio. Le maniche da rimboccarsi e da rimboccare al commendatore, al dottore, al mammasantissima. Sarti, Burgnich, Facchetti. Negri, Furlanis e Pavinato. Il racconto che non si chiamava ancora storytelling. Il sacchetto dell’Autogrill e il sacco di Roma. I piccoli centri di pessimo gusto. Don Milani e Don Vito Corleone. Adriano Olivetti e Luciano Liggio. Gladio e le feste de l’Unità. L’Unità.
Poi qualcosa è andato storto, o ha preso velocità.
Credo sia successo esattamente nel 1980, quando Canale 5 trasmise le partite di un torneo parrocchiale per nazioni, spacciato per Coppa del Mondo del cambiamento: il Mundialito. Era vietato. Non il Mundialito, la sua messa in onda. Ma lo fecero lo stesso, con un curioso magheggio per cui si spacciava per differita la diretta. Non successe niente. Anzi, la gente era felice. Pure io. Mi sembrava il nuovo, trovavo che «corri a casa in tutta fretta c’è un biscione che ti aspetta» non fosse, come parrebbe a un primo sommario esame, l’elogio sottocutaneo della sodomia in corpo 11 come scrisse Busi, ma un afflato di modernità. Da quell’estate, modernità e furbizia divennero un’associazione a delinquere di stampo reazionario.
Dacché ci si vergognava almeno un po’, di cotonarsi gli slip, il conto in banca, il curriculum, le amicizie, si passò alla rivendicazione. Il pensiero unico del radical- shit, il coro che si atteggia come se fosse fuori dal coro, l’evasione di necessità in cui la necessità è un mese alle Maldive.
Ci risvegliammo cosmopoliti e provinciali, a difesa della nostra backyard. Ronald Reagan e Martufello. Tondelli e Erica Jong. Paulo Coelho e Lara Cardella. Don Mazzi e don Tano Badalamenti. La ‘ ndrangheta e la ‘ ndrangheta. Il sacco di Roma secondo estratto. La 500 camouflage di Lapo. Le bombe intelligenti. Le bombe nelle stazioni. La maggioranza silenziosa. La maggioranza che parla. La maggioranza che urla. La maggioranza che rutta in faccia a chi aveva votato fino a un secondo prima. Il gelato gusto Puffo.
Visto come si porta bene la distopia, sarebbe l’ora di un romanzo sugli anni Ottanta ambientato nel 2019, in cui un gruppo di lavori in pelle ha diminuito il volume delle spalline per meglio occultare il giorno della marmotta in cui ci siamo rifugiati dacché è sempre il tempo del Mundialito.
Il quale, peraltro, si giocò a dicembre. Perché l’estate italiana e quella dell’Uruguay sono, per evidenti ragioni di latitudine, sfalsate, come la mia percezione di quelle belle stagioni, che solo oggi sono diventate il buco nero cui dare la colpa di essere, inevitabilmente, invecchiato. Con un’unica, struggente, malinconia pseudo- intellettuale: Nada che canta Amore disperato e il me adolescente che vorrebbe farne involtino della passione.
L’ho incontrata giorni fa nel backstage di un concerto per Emergency. Non sono quasi riuscito a presentarmi. Forse è per quel trauma irrisolto, alla fine, che proprio non sopporto gli anni Ottanta.