il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2019
Come conquistare una svedese
Quando c’è bisogno di una lingua, non la si trova mai. Così pensava Michele mentre sbirciava la ragazza seduta nella sua auto in tutta la sua svedese bionditudine e insperata bellezza. Non eccessiva, che sennò lui non se la sarebbe potuta permettere. Ma la sfiga che nei cinque interminabili anni di superiori lo aveva accompagnato con il gentil sesso era finita. Lo aveva capito subito quando, due settimane prima, zia Assunta lo aveva convocato perché stava ‘nguaiata. Sua cugina – madre di Angelina, una delle creature più disgraziate dell’intero Sud Italia baffi compresi, ma che zia Assunta riteneva un buon partito – avrebbe dovuto ospitare una ragazza svedese. Purtroppo sua suocera si era rotta un femore e lei era dovuta partire. Che belli questi guai! aveva pensato Michele mettendosi a disposizione di zia Assunta con commovente solerzia. La fanciulla si chiamava Karina e dunque non poteva aver nulla a che fare con Angelina e i suoi baffi. Wonderfull, no? Eccolo il vero scoglio, che si presentava grande come l’Iceberg del Titanic proprio quando lui era stato abbandonato dall’ultimo brufolo: come fare con la lingua? Accantonato per mancanza d’esperienza il consiglio del suo migliore amico Peppe (“infilagliela in bocca”), doveva trovare un modo di comunicare con lei: la luna, il mare e Sorrento con le ragazze di oggi non bastano più. Così aveva acquistato, di seconda mano da uno zio di Peppe, un corso di inglese metodo “Words” che garantiva “l’apprendimento di cinquemila parole in cinque settimane di studio intensivo”. Lui ne aveva solo due, ma se le sarebbe fatte bastare.
All’aeroporto Karina era arrivata, con il volo delle 21, insieme a un’altra ragazza. Michele si era scoperto d’improvviso credente perché aveva pregato tutti i santi conosciuti, veramente solo San Gennaro e Sant’Antonino abate che, vista la loro destinazione, era certamente il più interessato essendo il patrono di Sorrento. “Ti prego, ti prego fai the left”. E gli era andata benissimo: Karina, alla sinistra della chiattona, manteneva la promessa del suo nome.
“Hi, Karina. You’re very carina”, si presentò Michele con il suo miglior sorriso e la frase che aveva ripetuto trecento volte come tutte quelle che le avrebbe somministrato per farla innamorare perdutamente di lui. Non le diede il tempo di rispondere: “I’ve just a flour of english”, spiegò mentre le prendeva galantemente la valigia, per avvisarla di possibili errori di comunicazione. Lei lo guardò un po’ stupita, soprattutto dal fatto che lui possedesse una “farina d’inglese” e che glielo volesse dire con quell’urgenza. Però sorrise e rispose con un generico “ok”.
Michele, che da qualche mese aveva dovuto prendere atto di una dolorosa verità (la sua Carmela voleva concedersi a tutti tranne che a lui) era pronto alla riscossa. E si era messo a raccontare le bellezze che avrebbero visto: Ercolano, Pompei, la Costiera. Senza mai, mai dire una sola parola d’italiano come si era ripromesso. Basta sfiga, stop bad luck. Certo – ribadì per esser sicuro che avesse capito bene – era una bella “cat to skin” per via della lingua.
“Ok”, rispose prudenzialmente lei che tuttavia non si rendeva conto di come c’entrasse con le bellezze del luogo un sinistro gatto da scuoiare. Michele si era preparato anche sul carattere degli svedesi grazie alle numerose avventure di Peppe che d’estate faceva il bagnino a Ischia. Ragazze concrete, che badavano alla sostanza delle cose: capisci a mme. Karina però gli sembrava splendidamente timida e decise di rassicurarla con una delle frasi sottolineate in rosso: “I dont’ go for frogs, I’m not a driver fly”. A lei non piacevano le rane e tanto meno le mosche che guidavano. Ma non sapendo come interpretare l’affermazione, disse solo, di nuovo, “ok”. Michele – fiero di aver tranquillizzato la sua futura fidanzata sul fatto che lui non andava per rane e non era una inconcludente mosca cocchiera – le spiegò che una volta arrivati a casa avrebbero cenato soli perché la zia di solito “go to bed with hen”. Ma che comunque aveva preparato per loro una cena leggera: “Genoese and potato’s gattò. Like cat, you know?”. Lei disse ovviamente “Ok”, questa volta senza sorridere a causa – si era detta – di una preoccupante mania del suo nuovo amico e della zia (che si coricava insieme a una gallina) per gli animali di ogni specie. Aggiunse, molto a malincuore visto che il suo stomaco borbottava, che non era molto “hungry”. I gatti con le patate no.
Finalmente arrivarono a casa. E lei davanti allo spettacolo della terrazza affacciata sul mare e alla luna piena che splendeva in cielo, esclamò: “Wow”. Michele però la aveva già fatta accomodare e aveva servito un bicchiere di vino bianco freddo insieme alla pizza fritta. Che, con molta cautela, Karina addentò. “Wow”, disse ancora. Da “ok” a “wow” era certamente un passo avanti. Così Michele, mentre lei versava il secondo bicchiere, passò alla fase due del suo piano, “Put the flea in the ear”, ovvero metterle la pulce dell’amore nell’orecchio. Era il momento “ride the tiger”. Le raccontò i più recenti strazi del suo cuore, riassumendo la licenziosità di Carmela con un secondo lui eloquentissimo: “I look green mouses and eat many toad”. Karina era sempre più sorpresa di gente che guardava topi verdi e mangiava rospi. Lui continuò, mettendo sul piatto le intenzioni serie: “I’m not a mandrill, I dont’like run on little horse. And I dont’ like dead cat”. Non era un mandrillo, non correva la cavallina e non gli piacevano le gatte morte: cosa può volere di più una ragazza? Lui si alzò per dar corso alla fase tre, ma lei pensò a un congedo e disse un definitivo “goodnight”.
La mattina dopo una perigliosa notte trascorsa domandandosi cosa aveva sbagliato, Michele trovò zia Assunta a conversare con Karina. Che di cognome faceva Scapece.