La Stampa, 10 agosto 2019
Tienamman nei diari di Catello Cesarano
La vita in ambasciata può essere di una noia mortale, fra pratiche da istruire, visti da rilasciare e altre incombenze burocratiche che sembrano essere state inventate soltanto per fare perdere tempo. Oppure, se si ha la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto, può diventare un’occasione unica per vedere la storia da vicino.
Catello Cesarano era stato mandato in Cina nel 1983 come consulente scientifico dell’ambasciata italiana a Pechino. È un intellettuale al servizio della diplomazia, uno di quei funzionari da cui ci si aspetta che sappiano capire le cose prima degli altri, che siano in grado di vedere i cambiamenti subito e tradurre le impressioni a caldo in analisi al servizio dei vari ministri che, standosene nei loro uffici a Roma, vogliono sapere cosa accade nel mondo con un semplice sguardo gettato, spesso distrattamente, ad una relazione.
Catello era arrivato a Pechino con tutta la curiosità di un occidentale per una terra così lontana e diversa come la Cina. Ne era rimasto subito affascinato: quel brulicare di persone, di biciclette, il modo di vestirsi della gente, l’architettura e la poesia della natura. Pechino, aveva appuntato dopo pochi giorni dal suo arrivo, «non è una di quelle città che seducono a prima vista o che si aprono spontaneamente e senza reticenze all’occhio dell’osservatore» ma non l’aveva trovata nemmeno respingente e finiva, a volte, perfino per ricordargli la madrepatria, in fondo, «salire su un autobus non è molto meno avventuroso che salire su un autobus a Roma».
Alla fine del 1986, in Cina, qualcosa stava muovendo i primi passi. Proprio nella quiete del periodo natalizio le proteste studentesche avevano iniziato a costellare il calendario, rompendo la monotonia di giorni di solito piatti. Non è facile capire cosa stia succedendo, in particolare, e sembra paradossale, per chi vive proprio a Pechino, a pochi metri dai palazzi del potere. Cesarano lo nota: «Difficile valutare la portata degli episodi, perché Tv e stampa non ne hanno parlato con quell’esuberanza di dati e immagini che vi sarebbe stata in paesi occidentali. Anzi la tendenza è di non parlarne per niente».
Il regime usa un linguaggio tutto suo per descrivere la situazione. «Naturalmente non ci si deve aspettare che la stampa usi parole ed espressioni che in occidente sarebbero del tutto normali quali: ‘La polizia ha caricato violentemente il corteo disperdendo i dimostranti’. Secondo la stampa cinese, ‘la polizia, ha tentato gentilmente di persuadere i dimostranti a disperdersi, nel loro interesse e quello degli altri lavoratori che avendo trovato il traffico bloccato rischiavano di far tardi sul lavoro. Visto però che alcuni sembravano refrattari alla persuasione delle parole, ha dovuto procedere con metodi ‘amministrativi’».
Il tragico, nota Cesarano nei suoi diari, diventa quasi comico nell’impudicizia del linguaggio: «Un gruppo di studenti si è trattenuto davanti alla municipalità fino alle quattro, cinque del mattino, finché non è intervenuta la polizia che, preoccupata della loro salute, ha messo a disposizione delle automobili per farli riaccompagnare ai loro alloggi». È sconvolgente leggere oggi il tono di questi commenti ufficiali. E il diplomatico italiano, armato di ironia, mette in luce tutta l’ipocrisia del regime con la sua penna sapida, avendo ben presente che quelle parole così tranquillizzanti sono in realtà lo strumento che il governo cinese usa per nascondere la verità.
Cibo pessimo, alloggi fatiscenti e mancanza di democrazia, questi sono sostanzialmente i tre elementi che avevano indotto gli studenti a scendere in piazza mentre ai vertici del governo e del Partito comunista si dispiegava una guerra di potere che mostrava tutte le contraddizioni del sistema. Cesarano nei suoi diari restituisce diversi spaccati di questa situazione, come il ruolo tragicomico di Li Peng che «è apparso un bel giorno vestito alla Mao e ha annunciato la legge marziale. Evidentemente però per attuare quanto dichiarato bisognava schiacciare altri bottoni e su quelli non è riuscito a mettere il dito. Qualcuno gli ha ‘cioncato’ la manina, per cui lui bensì ha detto che c’era la legge marziale, ma quelli che dovevano attuarla si son ben guardati dal farlo». Saranno da rimpiangere questi tentennamenti.
Il 1989 è la svolta. Mentre la guerra fredda sta per finire e l’Unione Sovietica frana, il regime cinese serra i ranghi. Si è deciso che quelle proteste sono inaccettabili, che bisogna chiudere questa situazione che si protrae da troppo tempo. Pechino cambia volto, sebbene l’esercito sparpagliato per la città sembri disorientato, lasciato lì senza ordini, senza cibo, supportato dalla carità della popolazione che ha pena per quelli che Cesarano chiama «i poveri soldatini che per eseguire il loro dovere si erano trovati in questa contingenza». Tutto appare confuso, la durezza delle parole non sembra concretizzarsi subito in fatti. Il diplomatico italiano dice di non capirci niente, ma è confortato da un suo collega cinese: «Non cercate di capirci qualcosa non ci riuscireste. D’altronde, non ci riusciamo nemmeno noi…».
Tutto sarà chiaro soltanto quando diventerà dramma. Quando gli studenti in Piazza Tienanmen saranno sorpresi dai militari e massacrati, quando «i soldatini» riceveranno l’ordine di sparare, nonostante il tentativo da parte della gente di parlare con loro, ma gli ordini sono ordini: «A un certo punto sono arrivati gli autocarri carichi di militari dall’aspetto più marziale: armati di mitra e fucili, con l’elmetto. Si sono attestati coi camion a sud del cavalcavia, con la folla che cercava sempre il dialogo con loro, però senza che potesse intervenire e farli scendere».
Il clima che ci viene raccontato nei diari di Cesarano è quello di un surreale film di guerra: «Si sente un frastuono sempre più intenso. È il caratteristico rumore di ferraglia di una colonna di carri armati. Hanno sfondato al ponte vicino al Jian Guo Hotel e si dirigono verso la piazza Tienanmen, a forte velocità». Poi i fatti sono noti. Quel ragazzo con le buste della spesa che da solo, il 5 giugno 1989, prova a fermare la colonna coi cannoni spiegati, gli spari, i morti il cui conteggio ancor oggi attende di essere fatto: migliaia, comunque. E poi di nuovo un assordante silenzio.
«Non si sente più sparare. La televisione cinese da due giorni trasmette come nulla fosse programmi di intrattenimento, o film, interrotti di tanto in tanto da notiziari estremamente succinti. Appaiono dei comunicati scritti sullo schermo. Gli annunciatori sono spariti». Il Novecento, sta finendo. —