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 2019  agosto 10 Sabato calendario

Cosa resta di Woodstock


Poveri Quill. Giovanissimi di Boston, salirono sul palco alle 12,15 del secondo giorno di Woodstock ‘69, già immerso in una melma di fango e acqua. Giovane band, non male, faceva musica eclettica e aveva aperto concerti di Who o Grateful Dead. Dovevano placare la folla esausta, piacquero anche: ma quando si trattò di montare il documentario Woodstock la registrazione del loro suono risultò così difettosa che furono lasciati fuori dal film e dalla Storia, e si sciolsero l’anno dopo. Per molti dei 35 performer o band che passarono su quel palco, la kermesse si rivelò una roulette del successo: alle 2 del pomeriggio di quello stesso sabato, Santana che aveva 22 anni e non aveva mai inciso fece il suo en-plein, scendendo dal palco come instant star del latin rock. Poche settimane dopo Evil Ways era ai primi posti di Billboard; il docufilm fece il resto anche per il suo batterista Michael Shrieve protagonista di un «solo» elettrizzante. Andò bene poco dopo anche a John Sebastian, chiamato perché abitava lì vicino ed era tra il pubblico: gli chiesero di intrattenere durante uno dei numerosi problemi elettrici seguiti al castigo di Giove Pluvio.
Fra i grandi del sabato sera i Grateful Dead, re della controcultura a San Francisco, sabotati dalla pioggia e dalla tecnica, colpiti da scosse elettriche alle chitarre, già noti e noti per sempre qui negli States. Notte magica, quella: i già famosissimi bluesy-pop Creedence Clearwater Revival partirono alla 1 con Proud Mary e non ce ne fu per nessuno tranne che per la ribelle e unica Janis Joplin: alle 2,30 di notte, carica di alcol e droga e dunque alquanto dispersiva, galvanizzò pure con Summertime di Gershwin. Alle 5,30 del mattino gli ora venerandi Who, freschi reduci da Tommy, toccavano un palco dal vivo negli Usa per la prima volta con un set fantastico che comprendeva My generation. E fu per sempre. Alle 7, per il brunch mancato della domenica toccava ai rocker del flower power Jefferson Airplane: Grace Slick confessò che mentre cantava le si chiudevano gli occhi dal sonno.
Del debutto del venerdì, a las cinco de la tarde Richie Havens rimase famoso anche perché era il primo ad aprire le danze, buttato sul palco nel caos di futuri divi che non arrivavano, e placò la folla con una fusion eclettica di folk, blues e rock. Fu seguito tra l’altro da un guru dalla spiritualità diffusa, Sri Swami Satchidananda, in un ispirato discorso di amore e pace. Ma per metterla in musica ci volle più tardi Ravi Shankar, più noto come maestro di sitar di George Harrison che per il suo lavoro: si confessò poi contrariatissimo perché durante il suo set appassionato, sotto la pioggia il pubblico «urlava, fumava, copulava, si masturbava». Una giornata un po’ folk, quella, con la quasi sconosciuta Melanie e Arlo Guthrie figlio di un mito. Con l’ormai famosissima Joan Baez incinta di 6 mesi, che all’1,30 del mattino scandalizzata da tanta droga (sgridò la Joplin) chiuse la giornata con We Shall Overcome: quante volte l’avrà cantata?
Ma la leggenda di Woodstock resta affidata alla domenica. Fin dal quasi sconosciuto negli Usa Joe Cocker alle 2 del mattino: fattissimo, con la beatlesiana With a Little Help From My Friends si trasformò di colpo in una superstar, come Santana. Il virtuosissimo Alvin Lee con i Ten Years After mostrò di che pasta era fatto il blues inglese con 12 minuti di I’m Going Home. Crosby, Stills, Nash & Young erano debuttanti al secondo concerto e fu un trionfo di armonie. Poi, naturalmente, il talento supernatural di Jimi Hendrix: alle 9 del mattino riscrisse per i 40 mila rimasti nel pascolo di Max Yasgur una distortissima The Star-Spangled Banner, diventata poi simbolo di una nazione divisa e stanca di guerra. Sigla di chiusura, alle 11,15: Hey Joe. Quasi a dire: vai a casa Joe (sempre se ce la fai).