La Stampa, 10 agosto 2019
Il petrolio è in calo
Ai Paesi importatori come l’Italia farà piacere: l’Agenzia internazionale dell’energia prevede che i prezzi del petrolio ristagnino nei restanti mesi del 2019 e si riducano un altro po’ all’inizio del 2020, prolungando, e anzi accentuando, l’attuale bonaccia. Ma non è tutto oro quello che luccica. Il barile a buon mercato si deve in parte all’aumento di offerta di «shale oil» americano, cioè di greggio da scisto e da altre fonti alternative, ma in parte al rallentamento economico globale, e quindi anche italiano, che riduce la domanda di petrolio, ma pure i redditi e l’occupazione. Inoltre, la previsione dell’Aie non trova l’unanimità fra gli analisti di settore; il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, dice alla Stampa che «i prezzi attuali sono troppo bassi ed entro il 2019 aumenteranno di almeno 10 dollari al barile». Il contrario della stima dell’Agenzia. D’altra parte, le oscillazioni del petrolio sono sempre violente: 74 dollari il barile Wti a fine settembre, 45 a Natale, 64 ai primi di aprile e poco più di 50 negli ultimi giorni (ieri c’è stato un rialzo a 54,5 che non cambia la tendenza recente). E la polemica dei consumatori è che i carburanti al distributore si adeguano subito al rialzo e lentamente al ribasso.
Sgombriamo il campo da un equivoco: nonostante il boom delle energia alternative, il mondo non sta affatto dicendo addio al petrolio. Anzi i consumi continuano a crescere, al ritmo di un milione di barili al giorno in più ogni anno. Però quel ritmo di crescita è un po’ inferiore all’atteso: nel 2019 l’Aie preventitava 1,2 milioni di barili al giorno in più, mentre adesso riduce la stima a +1,1 milioni. E per il 2020 la previsione passa da +1,35 milioni di barili al giorno a +1,3. Questo «in conseguenza della disputa commerciale irrisolta fra Stati Uniti e Cina, che riduce il commercio e la crescita economica internazionale». Ma non c’è solo la domanda che aumenta meno del previsto, c’è anche l’offerta che cresce in maniera massiccia: gli Stati Uniti, tornati a essere i maggiori produttori mondiali grazie allo shale oil, rafforzeranno la loro posizione a spese dell’Opec, visto che, osserva l’Aie, «hanno ancora una capacità produttiva inutilizzata, e i costi di estrazione in calo permetteranno di accedervi».
Tuttavia questo boom è fragile e l’equilibrio del mercato è precario. Dice ancora Tabarelli: «L’aumento mondiale della produzione si deve interamente allo shale oil americano. Se non fosse per quello, l’offerta globale sarebbe inferiore alla domanda di 8 milioni di barili al giorno. E il boom dello shale oil non è sostenuto da ragioni economiche: gli investitori accorrono, ma da anni il loro capitale non viene remunerato. Se arriva una recessione, il settore crolla, provocando un rimbalzo dei prezzi del petrolio».
Diverso il parere di Massimo Siano, analista e operatore di mercato a Londra: «In America si stanno costruendo oleodotti e altre infrastrutture che prolungheranno di qualche anno la fortuna dello shale oil. E sul lato della domanda l’economia tedesca e quella cinese frenano. Perciò la mia previsione di prezzo del petrolio è di stagnazione o ribasso. Solo la disciplina, sorprendente, mostrata da Opec e Russia nel contenere le loro produzioni sta evitando un ulteriore crollo del prezzo del barile».