La Stampa, 9 agosto 2019
La strana storia dei manoscritti di Franz Kafka
A costo di apparire tremendamente scontati, viene proprio da dire che è una vicenda che più kafkiana di così non si può. E c’è quasi da giurare che l’abbia orchestrata lui, da chissà quale irraggiungibile dimensione dello spazio tempo. A novantacinque anni e un mese dalla sua morte, infatti, approda alla Biblioteca Nazionale d’Israele – che presto si sposterà nella sua nuova sede, proprio sotto la Knesset, il Parlamento – l’ultima tranche dei manoscritti di Franz Kafka. E si conclude la loro misteriosa, inquietante, incredibile storia che tanto e tanti ha ispirato, non ultima la scrittrice americana Nicole Krauss nel suo ultimo romanzo Selva Oscura (pubblicato in italiano da Guanda).
Nel segno del paradosso, ma in fondo anche di una circolarità che il grande scrittore avrebbe certamente apprezzato, questa ultima e definitiva acquisizione giunta a Gerusalemme direttamente da Zurigo, dove era rimasta per decenni chiusa in una cassetta di sicurezza della banca Ubs, contiene fra il resto i quaderni su cui Kafka studiava l’ebraico. Un ritorno a casa, anche se nella sua breve vita lo scrittore non ha mai messo piede in Terra Promessa.
Poco prima di morire a 41 anni per le dolorosissime complicanze della sua tubercolosi, Kafka aveva strappato all’amico Max Brod la promessa che avrebbe bruciato tutti i suoi manoscritti: forse perché voleva restare da morto dentro quella solitudine in cui aveva sempre vissuto. Ben poco gli era stato pubblicato in vita: fra quel poco c’è il racconto Preparativi di nozze in campagna di cui peraltro vengono alla luce in quest’ultima acquisizionedi manoscritti alcune vecchie/nuove stesure. Ma se oggi abbiamo Kafka fra i giganti della letteratura moderna, anzi di tutti i tempi, possiamo dire grazie alla promessa che l’amico Max Brod non mantenne: dopo la morte di Kafka, egli non se la sentì di bruciare quel patrimonio di parole, e decise di custodirlo. Nel 1939 lasciò Praga appena in tempo per non finire travolto dallo sterminio e arrivò in Israele.
Max Brod morì a Tel Aviv alla fine del 1968, dopo una modesta carriera artistica e letteraria. Lasciò – temporaneamente – il fondo dei manoscritti di Kafka alla sua segretaria Esther Hoffe. Da quel momento in poi, questa storia già intricata si complica tremendamente: Hoffe terrà gelosamente per sé i manoscritti, sarà sempre più restia a farli visionare, a concederne la pubblicazione. Dal suo modesto appartamento in via Spinoza a Tel Aviv (e come si fa a non pensare a una consonanza fatale di destini fra questi due ebrei così «eccentrici» e cruciali al tempo stesso) Hoffe, morta a 101 anni nel 2007, e le sue eredi, le figlie Ruth ed Eva, hanno fatto di tutto per centellinare questo patrimonio, avvolgerlo nel mistero, farne perdere le tracce. Una parte dei manoscritti è rimasta in casa sua, una è finita in diverse cassette di sicurezza d’Europa difficili se non impossibili da rintracciare.
Undici anni fa si avviò l’iter per il recupero del fondo: il testamento di Brod prescriveva infatti che Hoffe provvedesse a consegnarlo a una istituzione pubblica, archivio o biblioteca che fosse. Ma è stata una battaglia lunga, estenuante, più assurda che mai. Quando ci si è messa di mezzo anche la Corte Suprema d’Israele, ordinando la perquisizione nella casa di via Spinoza, la scena che si è svelata oltre la porta aveva un che di inquietante. Molti manoscritti erano stati danneggiati dalle unghie e dall’urina dei tantissimi gatti di casa, altri erano stipati dentro un frigo rotto.
Ma a poco a poco, a suon di indagini, ingiunzioni, avvocati all’opera, tutti i manoscritti di Kafka sono arrivati alla Biblioteca Nazionale d’Israele. Compreso quest’ultimo lotto, giunto qualche giorno fa a Gerusalemme e mostrato pubblicamente prima di essere affidato al laboratorio di restauro e alla catalogazione, con da parte della Biblioteca la attendibile promessa che quanto prima sarà disponibile online.
È un’acquisizione preziosa, quest’ultima, non solo perché mette fine a una vicenda tanto lunga quanto assurda – benché ci sia già chi sostiene che esistano altri manoscritti kafkiani in circolazione, nascosti chissà dove – ma anche per il valore dei testi ritrovati. Si tratta infatti di moltissime lettere, del manoscritto della Lettera al Padre – uno dei testi più tormentati e più duri eppure più universali di Kafka -, di cartoline che Kafka aveva inviato a Brod. C’è anche un piccolo taccuino nero su cui lo scrittore disegnava: schizzi in nero, figure dalle gambe lunghe e dai volti impenetrabili.
Gran parte delle lettere affronta il tema del sionismo e dell’ebraismo, e chissà se contengono o meno la conferma di quella definizione di Kafka scrittore «religioso» cui Brod tanto teneva.