la Repubblica, 9 agosto 2019
Intervista a Maria Santos-Sainz. Parla di Camus
Partiva con il taccuino per fare reportage nelle zone più remote dell’Algeria, raccontava fatti di cronaca e processi, incrociava fonti, denunciava casi di corruzione, scriveva appassionati editoriali e intanto ripensava le regole dell’informazione. Prima di essere scrittore e intellettuale, Albert Camus è stato un giornalista. Un mestiere che ha praticato durante tutta la sua vita. A raccontare il volto meno noto del premio Nobel è Maria Santos-Sainz, docente alla facoltà di giornalismo dell’università di Bordeaux, che ha raccolto e commentato in un saggio lunghi estratti di articoli, tra cui diversi inediti. «La passione e il rigore di Camus sono un esempio ancora oggi» spiega l’autrice che ha dedicato il volume ai suoi giovani studenti e a tutti quelli che ancora sognano di intraprendere questo mestiere.
Molti ricordano il Camus editorialista a Parigi, lei invece mostra che la sua carriera nei giornali comincia già prima, in Algeria, come semplice cronista.
«Dopo qualche articolo per una rivista studentesca, nel 1938, a soli venticinque anni, entra a far parte della redazione del quotidiano Alger Républicain, chiamato da un collega più anziano, Pascal Pia, con il quale formerà una sorta di sposalizio professionale. Camus gli dedicherà poi Il Mito di Sisifo. Quando il giornale verrà censurato e poi chiuso dalle autorità algerine, si ritroveranno in Francia a Combat, la rivista fondata da un gruppo di resistenti durante l’Occupazione».
Che tipo di giornalista era Camus?
«È stato cronista di giudiziaria e nera, ha scritto reportage, organizzato inchieste, è stato editorialista ma anche caporedattore e segretario di redazione a Paris-Soir».
Quali sono gli articoli più importanti?
«Camus è ricordato soprattutto per il suo impegno a Combat che gli aveva procurato dei falsi documenti, si faceva chiamare Albert Maté, per lavorare durante l’Occupazione. I suoi editoriali fanno parte del patrimonio giornalistico non solo francese ma anche europeo. Penso alla serie “Né vittime né carnefici”. Ha parlato della banalità del Male prima di Hannah Arendt. All’indomani della Liberazione ha fatto pubblicare la testimonianza di un sopravvissuto al lager di Dachau. Ed è stato anche uno dei pochi giornalisti occidentali a essere insorto dopo i bombardamenti americani a Hiroshima e Nagasaki. Nel 1939 aveva scritto un Manifesto del giornalista libero».
Cosa diceva nel manifesto?
«Illustrava quattro comandamenti: lucidità, rifiuto, ironia, ostinazione.
La lucidità, spiegava, è la capacità di resistere all’ingranaggio dell’odio e al culto della fatalità. Il rifiuto, continuava, si rende talvolta necessario davanti a quella che chiamava “marea montante della stupidità”. L’ostinazione era per lui una virtù cardinale, insieme all’ironia, straordinaria arma contro i potenti».
Aveva tutte queste qualità che ha appena descritto?
«Il reportage “Miseria della Cabilia” pubblicato a puntate su Alger Républicain è un buon esempio. Camus era partito per dieci giorni, muovendosi a piedi e in autobus in una delle regioni più remote dell’Algeria. Era il contrario della rapidità che vediamo oggi. Diceva: “Non bisogna arrivare per primi, ma essere i migliori"».
C’era anche una forma di militanza nei suoi articoli?
«È sempre stato dalla parte degli ultimi, degli oppressi. Non dimenticava le sue origini. Era un giornalista in rivolta, come il titolo di un suo famoso libro. Ma non piegava i fatti alle idee. Le sue cronache sulla povertà della Cabilia erano coraggiose, denunciava lo schiavismo dei coloni nei confronti di queste popolazioni. Sono articoli puntuali, accompagnati da cifre. I prezzi dei generi alimentari, l’importo dei salari, il numero di medici o funzionari. Per me è stato quasi un precursore di quello che chiamiamo data journalism».
Quanto il giornalismo ha influenzato i suoi libri?
«Il processo raccontato ne Lo Straniero è ispirato a quello dell’affaire Hodent che Camus aveva seguito da cronista per Alger Républicain. Hodent era un funzionario arrestato dopo aver tentato di denunciare la speculazione e la corruzione nel commercio del grano. Camus si era battuto per farlo assolvere, aveva scritto una lettera al governatore di Algeri che per me è dello stesso livello del J’accuse di Émile Zola».
Com’era il suo stile?
«Asciutto, potente, attento alle parole. “Nominare male le cose, è partecipare all’infelicità del mondo” aveva detto. Utilizzava spesso la prima persona, talvolta si rivolgeva direttamente al lettore per renderlo partecipe. Se faceva un errore, non aveva paura di ammetterlo e correggersi nell’articolo successivo».
È un modello ancora attuale?
«Dico spesso ai miei studenti: volete ritrovare credibilità e lottare contro le fake news? Leggete gli articoli di Camus. La sua integrità deontologica e morale è un modello. È stato censurato ed espulso dall’Algeria per i suoi articoli da cronista. Dopo essere stato uno degli editorialisti più famosi di Combat ha scelto di andarsene perché la proprietà non era più dei giornalisti e non voleva scendere a patti con altri editori. Era convinto che la qualità di un Paese si riconosca dal valore della stampa. Aveva una bella definizione del giornalismo nei tempi bui: “Resistere è non consentire la menzogna”. Mi sembra ancora d’attualità».
Gli ultimi articoli furono pubblicati su L’Express, cinque anni prima di morire.
«L’esperienza è durata poco e non è andata bene. La sua posizione sull’Algeria non è stata compresa. È stata la sua ultima esperienza nei giornali. Qualche tempo dopo, aveva confidato all’amico Jean Daniel di avere nostalgia del mestiere.
Considerava il giornalismo come una vocazione, non una semplice lavoro».