la Repubblica, 9 agosto 2019
Il trionfo delle donne tutte curve
«Non sono un momento. Sono una forza da non sottovalutare». Dice così la ventiduenne rapper americana Chika mentre, in reggiseno e slip Calvin Klein, se ne sta sullo stesso divano su cui, 25 anni fa, era stata ritratta una giovane e nuda Kate Moss (per la cronaca, era la campagna del profumo Obsession). Ma tanto era eterea Kate e tanto è massiccia Chika, a sorpresa protagonista dello spot per la lingerie del marchio. Il succo però non cambia: entrambe sono state scelte perché rompono gli stereotipi.
In questo il brand ha dimostrato un notevole tempismo, perché se è vero che da tempo si discute su un’idea di bellezza più universale di quel che è stato sinora, è adesso che le cose stanno davvero cambiando. Questa è l’estate del trionfo curvy. Basta guardarsi attorno: da mercato di nicchia che era, la moda “morbida” sta dilagando; in teoria perché era il momento di andare oltre certe convenzioni, in pratica perché funziona tanto nella comunicazione quanto a livello commerciale. Difficile farne a meno. «In passato la moda si basava sull’essere esclusiva, per pochi. Ora, più persone veste un brand e più è desiderato», spiega l’antropologa Simona Segre Reinach, autrice del volume The size effect.
E cosa c’è di più inclusivo di un ideale che va oltre la taglia campionario? «Un cambiamento epocale per un sistema che ha sempre esaltato la taglia 40».
Per tornare a Chika, si capisce anche come mai questa rivoluzione abbia colpito il mondo dei costumi da bagno e della lingerie: lì i corpi sono scoperti e, di conseguenza, esaltati. Il messaggio è forte anche per questo. Il tema offre molto da dire e da fare, nel bene e nel male. Rientra nel primo caso l’ultima Swimsuit Issue della rivista Sports Illustrated, sinora basata sull’assioma “fanciulla filiforme, meglio se bionda, in tanga su una spiaggia”. Di fronte al calo d’interesse tra i più giovani, molto attenti a certe tematiche, la testata già nel 2016 aveva tentato di mettersi in pari mettendo in copertina Ashley Graham, star della moda curvy. Quest’anno sono andati oltre: ci è finita la 45enne curvilinea Tyra Banks, e nello stesso numero hanno trovato posto, tra Halima Aden in burkini e Paulina Porizkova, 54 anni, ben tre modelle formose: la bionda Hunter McGrady, la polinesiana Veronica Pome’e e Tara Lynn, considerata una delle icone del settore. «Tutti abbiamo diritto a essere rappresentati. Dove prima eravamo considerate una nicchia, adesso siamo l’ago della bilancia: facciamo la differenza», conferma Tara.
Ma c’è pure chi ha capito troppo tardi la portata del fenomeno, e ne paga le conseguenze. È di pochi giorni fa la notizia che Victoria’s Secret, il colosso della lingerie e dello swimwear “sexy”, non produrrà più la sua annuale sfilata televisiva, affollata di (magrissime) top in completi striminziti e ali da angelo. Colpa del crollo negli ascolti e nelle vendite, originati proprio dal rifiuto del marchio di aprirsi ai nuovi standard: nemmeno un anno fa il direttore marketing Ed Razek tuonava contro le modelle più floride, salvo annunciare poi in pompa magna le prime due testimonial “fuori taglia”, Barbara Palvin e Lorena Duran, rispettivamente una 42 risicata e una 44 abbondante. Non è ovviamente bastato: è di questi giorni l’annuncio che Razek va opportunamente in pensione e il coinvolgimento del brand nello scandalo Jeffrey Epstein – una prossimità inaccettabile in epoca #metoo – è stata l’ultima goccia, che nemmeno l’ingaggio della modella transgender Valentina Sampaio è riuscito a mitigare. Un errore di giudizio grossolano il loro, perché le potenzialità di questo mondo sono evidenti: alla Miami Swim Week, enorme rassegna di moda mare, modelle curvy e “classiche” ormai si equivalgono; uno dei brand che oggi più fa parlare è Aerie, che fa costumi dalla xxs alla xxl, e le start-up promettenti come Third Love e Lively (creata da un’ex dipendente di Victoria’s Secret) puntano alle formose.
Resta da capire quanto di questa mobilitazione sia sincera, e quanto frutto del marketing. «Impossibile stabilirlo ora», riflette Simona Segre Reinach. «Solo sulla lunga distanza se ne vedranno gli effetti reali». È d’accordo Tara Lynn: «Ovviamente molti brand si stanno buttando sull’inclusività solo per cogliere il momento, senza un progetto reale. Però, spesso, quest’opportunismo è il solo modo che hanno le minoranze per iniziare a farsi considerare. Quindi, a me sta bene così».