la Repubblica, 9 agosto 2019
Il frigo solidale per pensionati, giovani genitori di famiglie numerose, studenti e disoccupati
Il piccolo frigorifero fa bella mostra di sé a fianco della lavagna con il menù della Cantina del 18esimo, una trattoria alle spalle di Montmartre, a Nord della città. Non è molto fornito, per la verità. E questo è un buon segno: «Dipende dalle ore della giornata. Al mattino, per esempio, lo svuotano molti pensionati». Il racconto è di Dounia Mebtoul, 27 anni, studentessa di economia all’università di Parigi. È lei che ha inventato nella capitale francese i “frigoriferi solidali”, un’idea per conservare e distribuire il cibo diventato superfluo e che ai poveri del quartiere, invece, serve per sopravvivere. All’ora di pranzo il frigo presenta una mezza anguria, un grande panino, una scatola di biscotti al latte e un invogliante quanto misterioso pacco di carta gialla chiuso con un cordino. «Questo è il primo frigorifero – dice Dounia – ma a Parigi attualmente ce ne sono già altri 7. E presto ne arriveranno altri 11». L’idea è di distribuire i frigoriferi nelle trattorie, nei ristoranti, nel bar e in tutti gli esercizi commerciali in genere. L’obiettivo? «Ampliare la rete di punti di distribuzione e ridurre gli sprechi».
Come è nato tutto questo? Dounia ricorda con un po’ di affetto «il giorno del 2017 in cui ho pensato che nella cucina della nostra trattoria c’erano troppi avanzi e che era uno spreco gettarli alla fine della giornata. Così mi è venuta l’idea di portare tutto in un frigorifero. L’ho messo lì, all’ingresso». E si capisce perché: chi porta il cibo e soprattutto chi lo va a ritirare potrebbe preferire l’anonimato. Ma chi alimenta il frigo e chi viene a prendere il cibo? In teoria tutto è anonimo. «In realtà – dice Dounia – gran parte di coloro che portano e che prendono li conosciamo. È gente del quartiere». Tra i poveri ci sono due tipologie: i pensionati e i giovani genitori di famiglie numerose. Ma anche studenti e disoccupati. «Ecco guardi, vede quella signora dietro di lei?».
L’idea sta facendo strada. A giugno il Comune di Parigi ha votato una delibera che sovvenziona l’associazione di Dounia, Les frigos solidaires e paga l’acquisto di 15 frigoriferi (da 1.300 euro l’uno) da distribuire in città. Iniziative analoghe, anche se non collegate all’associazione francese, stanno nascendo in diversi paesi europei, anche in Italia. Un esempio di sharing economy e un segnale positivo dell’attenzione diffusa contro gli sprechi. Ma anche un campanello d’allarme sull’aumento della divaricazione sociale nelle città europee col diffondersi della povertà anche nella classe media: «Questo non è un quartiere povero ma ormai la povertà si trova dappertutto», sintetizza Dounia. Ed è proprio la povertà della porta accanto, quella insospettabile del vicino che non dà l’impressione di essere indigente, la più difficile da combattere. L’iniziativa dei frigoriferi solidali serve anche a creare una rete contro queste solitudini: «Abbiamo dei rapporti con queste persone che spesso vivono isolate», racconta la ragazza della Cantina. E quella rete serve anche a proteggere. Nel decalogo dell’associazione c’è l’elenco di cosa si può portare e cosa no. Ben accette verdure, prodotti secchi come i biscotti, quelli senza scadenza e non scaduti. Vietato invece per ragioni di sicurezza portare prodotti cucinati in casa o con la confezione aperta. È vietatissimo mettere alcoolici. Da evitare anche, per la difficoltà di conservazione, carne e pesce.
Al di là della sovvenzione del municipio di Parigi, l’associazione ha lanciato sul suo sito (hello lesfrigossolidaires. com) una colletta per acquistare nuovi frigoriferi. Ciascuno può partecipare e i negozianti possono dare la disponibilità a installarne uno che verrà consegnato loro quando la colletta avrà raggiunto la cifra necessaria. «L’idea mi è venuta studiando esperienze simili a Berlino – spiega Dounia – e nasce da una constatazione semplice: è assurdo che ci siano milioni di persone che cercano disperatamente del cibo e altri milioni che lo sprecano senza nemmeno rendersene conto».