Corriere della Sera, 9 agosto 2019
Covacic nell’estate del 1966
Luglio, forse agosto del 1966, manca la data sulla foto ma mia madre non ha dubbi: ho appena compiuto un anno. Durante il giorno vengo spostato ogni volta nella stanza più fresca della casa, faccio lunghi pisolini nel mio minuscolo letto dotato di cortina e giostra con gli uccelli. Ovunque mi trovi, sono avvolto dalla penombra, la luce che filtra è sempre azzurrina, dolce come la temperatura. Passo le giornate spargendo saliva sul sonaglio di gomma per farmi i denti, ignorando di aver imboccato la triste via dello svezzamento – uno dopo l’altro stanno già spuntando tutti gli incisivi – ma al momento godo ancora del soffice seno di mamma. A orari più o meno cadenzati (all’epoca non serviva molto mettersi a piangere), mamma mi accoglie tra le sue braccia e io succhio. Poi vengo restituito alla mia bolla limbica, dove presto sentirò riempirsi il pannolino di morbido tepore.
Può esserci un’estate migliore? I miei non mi portano ai concerti rock, non mi caricano sul marsupio per farmi provare il parapendio insieme a loro, nemmeno azzardano una vacanza in macchina – i finestrini aperti, le correnti d’aria! – figurarsi un volo charter per visitare una capitale rovente. Se una sera si concedono una sala da ballo, mi lasciano dalle nonne, una o l’altra fa lo stesso, perché ci andrò comunque insieme al mio orsacchiotto Pepi con cui verrò messo a dormire dopo molte coccole e varie ninnananna (istriane nel caso di nonna Giovanna, lucane nel caso di nonna Lisa). Ecco, dormirò, dormirò come non sarò più capace di dormire, precipitando in una pace soda e avvolgente, priva di tormenti. Un sonno sapido, non troppo diverso dalla veglia, in una dimensione che precede la cognizione del tempo e quindi preclusa ai progetti, alle aspettative, ai ricordi.
Come si vede nella foto, non me la passo male. Sono in salute, indosso un vestitino di cotone e comode scarpette fatte all’uncinetto. Il sorriso tradisce una lieve preoccupazione, ma il motivo è semplice, siamo in trasferta: escluderei dai nonni, non riconosco quella panca né la tenda spessa alle mie spalle. Soprattutto non riconosco la mano che regge il seggiolone. Comunque di sicuro siamo a Trieste, a un passo da casa, magari da qualche zia. Una dimora umile, a occhio, ma tranquilla, un posto fresco e ombroso dove la cosa più strana sarà stata tutt’al più assaggiare un gelato.
Il primo gelato della vita: certo, un’esperienza traumatica – latte ghiacciato!? – chissà le risate dei parenti in cerchio davanti alle mie smorfie, ma niente a che vedere con la depilazione delle sopracciglia e delle ascelle (immagino), niente a che vedere con la coda in attesa dell’aliscafo, o con la corsa a riempire le cappelliere del solito low cost per Londra, o con la sauna nella navetta affollata che attende gli ultimi ritardatari con le porte aperte e il climatizzatore guasto, niente a che vedere con gli incolonnamenti all’entrata e all’uscita di ogni parco naturale, di ogni area incontaminata, niente a che vedere con la guerra per il tavolo sotto la pergola o vicino alla battigia, o con le folle sudate agli ostelli sul cammino di Santiago di Compostela, o con i corsi di aquagym o di Tai Chi al villaggio turistico, niente a che vedere con la cura preventiva di clorochina, o con le diarree fulminanti in mezzo al deserto, o con l’insalata capricciosa di un qualsiasi all inclusive. Soprattutto, niente a che vedere con la sabbia.
Nell’estate del 1966 forse ho assaggiato il mio primo gelato, ma è un trauma che ho saputo elaborare, ne sono sicuro, o perlomeno oggi mi sembra più che accettabile, ci farei la firma per un trauma così.