il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2019
All’Elba hanno ricreato una specie di Brunello di 2.500 anni fa
“Ora bisogna bere e che uno beva a tutta forza/ perché davvero Mirsilo è morto”. Così recita il poeta greco Alceo nel 590 a.C. davanti ai compagni di eteria (nell’antica Grecia, lega di carattere politico), esortandoli a brindare per festeggiare la morte del tiranno Mirsilo di Mitilene, nemico dell’aristocrazia a cui Alceo e gli altri sodali del bevereccio simposio appartengono.
Anche noi, oggi, figli di una Storia ciclica per barbarie che sempre si ripete e tanto per smentire il filosofo Alexandre Kojève – che propugnava la fine della Storia – potremmo imitare il sommo poeta ellenico amico di Saffo, rimanendo in attesa della dipartita di uno di questi tiranni moderni che imperversano tale o tal’altra parte del mondo.
E non è solo la presenza dei suddetti tiranni a permetterci di mimare i gesti di Alceo, ma anche la rinascita all’Isola d’Elba del vino degli antichi Greci. Il sodalizio tra Attilio Scienza, docente di viticoltura dell’Università di Milano, e il viticoltore Antonio Arrighi hanno ricreato una specie di Brunello di 2.500 anni fa, il prelibatissimo e pregiatissimo Vino di Chio.
Dalle fonti storiografiche (Plinio e gli altri), sappiamo che da Chio originava un vino denso, zuccherino, di elevato tasso alcolico: in purezza, era ottimo per sopportare lunghi viaggi in mare o lunghi spostamenti via terra; diluito con acqua, imbandiva riccamente i banchetti. Il suo segreto era l’immersione delle uve nell’acqua marina e, in seguito, l’appassimento al sole. All’epoca, per renderlo identificabile, venne chiesto a Prassitele (non proprio al primo che passava) di creare, tra un’Afrodite di Cnido e un’Artemide brauronia, un’anfora riconoscibile: ecco il primo tentativo di brand. Ne venne fuori una bombata e bellissima, marcata con una sfinge.
Tra il 2017 e il 2018, il professor Scienza ha individuato che l’uva italiana più simile a quella di Chio è l’Ansonica, con cui si fa il bianco dell’Elba. L’isola toscana, per questo motivo, è stata eletta a laboratorio. L’esperimento, in collaborazione con l’Università di Pisa, è iniziato nel 2018. Il viticoltore elbano Arrighi spiega a La Nazione che, dopo esser stata immersa in mare di fronte a Porto Azzurro dentro a ceste di vimini per cinque giorni, l’uva “è stata poi messa ad appassire sulle cannucce e successivamente in anfora. La quantità di sale presente dopo 5 giorni in mare ha permesso di evitare l’uso di solfiti: il sale ha fatto da antiossidante e conservante.” Vinificato in anfore, lasciando macerare succo e bucce insieme, ne è risultato un bianco strutturato, molto corposo e sapido. “A marzo 2019,” prosegue Arrighi, “quando abbiamo assaggiato il vino con Attilio Scienza, ci siamo emozionati: è probabilmente un vino come usciva dalle cantine dell’isola di Chio, fino a questo passaggio identico a come lo abbiamo prodotto noi”.
L’esperimento verrà ripetuto nel 2019, apportando tuttavia alcune modifiche per tentare di perfezionare il metodo: sarà per esempio anticipata la raccolta dell’uva in modo da immergerla nelle acque ancora estive, affinché goda nella fase di appassimento di un maggior calore solare. Il progetto è stato anche raccontato in un breve documentario, Vinum Insulae, diretto da Stefano Muti, premiato il 16 giugno a Marsiglia quale miglior cortometraggio durante la ventiseiesima edizione di “Oenovideo”, il più antico festival cinematografico dedicato alla vite e al vino.
Non ci resta che assaggiarlo, nell’attesa di avere un motivo per festeggiare.