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 2019  agosto 08 Giovedì calendario

Il patrimonio dei Riva è sparito. Alla vittime dell’Ilva, un piano, un attrezzo da palestra e un’affettatrice

Un pianoforte, un attrezzo da palestra e addirittura un’affettatrice. Sono i beni sequestrati a Fabio Riva, ex proprietario dell’Ilva di Taranto arrestato nell’inchiesta “ambiente svenduto” che ha documentato le emissioni velenose della fabbrica e i legami “gelatinosi” tra il gruppo industriale e la politica locale e nazionale. Valore commerciale dei tre oggetti? Meno di 15 mila euro in tutto. Una somma che dovrebbe ripagare i danni subiti da centinaia di abitanti del rione Tamburi, il più vicino e il più martoriato dai fumi e dalle polveri nocive dello stabilimento, le associazioni come Legambiente e le istituzioni come il Comune di Taranto, che da solo aveva chiesto oltre 3 miliardi. Quelle poche migliaia di euro sembrano un insulto. Alle vittime del capoluogo ionico era destinata una somma più alta: il piccolo tesoro di circa tre milioni di euro appartenuto in punto di morte a Emilio Riva, l’89enne padre di Fabio ed ex padrone dell’acciaio. Era una minima parte della fortuna scampata ai numerosi sequestri della magistratura e sarebbe servita a ripagare le parti civili di un vecchio processo per inquinamento in cui l’imprenditore era stato condannato in via definitiva. Sulla carta il vecchio Riva possedeva ancora denaro, immobili e quote societarie che poi, misteriosamente, scompaiono.
Tutto inizia il 30 aprile 2014 quando l’imprenditore lombardo muore per un tumore. Due anni prima, nel luglio 2012, la magistratura aveva sequestrato gli impianti dell’area a caldo dell’Ilva perché colpevole di diffondere “malattia e morte” con le emissioni nocive, ma in pochi ricordano che i vertici della fabbrica erano già stati condannati e obbligati a risarcire le parti civili. Una di queste sentenze è del 2005: la Cassazione condannò definitivamente Emilio Riva e l’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso. Sulla base della sentenza penale, qualche tempo dopo, è iniziato il processo civile per quantificare l’ammontare del danno che Riva avrebbe dovuto pagare. Comune e Provincia di Taranto chiedono cifre talmente astronomiche che i beni di Emilio Riva in confronto sembrano pochi spiccioli. Infatti nessun parente accetta l’eredità per evitare di accollarsi il rischio di consistenti risarcimenti. Tra giugno e luglio 2014 firmano la rinunzia dal notaio e il tribunale di Varese, nell’ottobre successiva, nomina l’avvocato Omar Salmoiraghi come curatore dell’eredità “giacente”.
Salmoiraghi affida a un tecnico l’inventario dei beni: compaiono terreni, fabbricati, partecipazioni societarie e denaro contante su alcuni conti correnti. Valore complessivo, circa tre milioni di euro. L’avvocato di Varese contatta poi i legali delle parti civili per avere un’idea chiara dei debiti e delle pendenze. Circa due anni dopo, il tribunale di Varese a sorpresa lo sostituisce con un nuovo curatore: è l’avvocato Marco Moro Visconti, milanese. Perché questo cambio? L’avvocato Salmoiraghi, contattato dal Fatto spiega di non poter rispondere in assenza dell’autorizzazione del tribunale. Nel frattempo, nel procedimento civile, c’è un nuovo colpo di scena: Fabio Riva si dichiara unico erede del padre Emilio.
Fabio Arturo Riva, all’epoca 62enne, era rientrato in Italia a luglio del 2014 dopo 31 mesi di latitanza a Londra. C’ era un ordine di arresto per associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, omissioni dolose di cautele sui luoghi di lavoro e poi corruzione in atti giudiziari e diversi altri reati contestati nella maxi inchiesta di Taranto: il processo è ancora in corso. Il 6 giugno 2015 atterra all’aeroporto di Fiumicino, finanzieri e poliziotti lo portano nel carcere di Taranto dove trascorre qualche mese in cella e poi, per motivi di salute, ottiene i domiciliari. Il 5 dicembre 2016 il secondogenito di Emilio Riva diventa il suo erede, ma nessuno dei creditori viene informato dal curatore Moro Visconti. Come mai? Dal suo studio ci spiegano che non è possibile parlare con lui. Intanto i conti correnti dell’ex patron dell’acciaio finiscono nella disponibilità del figlio Fabio. Quando la notizia arriva agli avvocati delle vittime di Taranto è troppo tardi: su quei conti correnti non c’è più nulla. Gli immobili? Neppure quelli ci sono. Perché in realtà Emilio Riva possedeva solo una quota dei terreni e un diritto parziale di usufrutto che sarebbe decaduto con la sua morte. Delle partecipazioni azionarie non c’è notizia.
Insomma, non c’è più niente. I cittadini dei Tamburi, Legambiente e gli enti pubblici, nonostante una sentenza abbia stabilito che hanno diritto a un risarcimento, non riceveranno nulla. Anzi, peggio. Quando l’avvocato Massimo Moretti di Legambiente chiede di pignorare i beni di Fabio Riva incassa forse la più grande delle beffe: sotto chiave finiscono solo il pianoforte, l’attrezzo da palestra e l’affettatrice. Ma c’è di più. Al primo curatore, l’avvocato Salmoiraghi, viene liquidata una parcella superiore ai 200 mila euro, soprattutto per aver seguito come i numerosi procedimenti civili in cui era coinvolto l’89enne tra Taranto e Milano. Il secondo curatore, l’avvocato Moro Visconti, invece, non chiede nulla al tribunale: sarà l’erede Fabio Riva a pagarlo. Ai tarantini resta la beffa. E un’affettatrice.