la Repubblica, 8 agosto 2019
Intervista a Toni D’Angelo
Ama il cinema di genere, considera Abel Ferrara un maestro oltre che un grande amico, è un fan dei poliziotteschi «e girare Calibro 9, il sequel di Milano calibro 9 di Fernando di Leo è un grandissimo onore». Toni D’Angelo, 39 anni, figlio di Nino, icona pop, è un regista curioso e appassionato. Con Falchi ha conquistato la critica, ora gira il remake di quello che Tarantino considera “il miglior poliziesco”. Il film del ‘72 – con la valigia di dollari che passa di mano in mano – era interpretato, tra gli altri, da Gastone Moschin, Mario Adorf, Luigi Pistilli, Barbara Bouchet nei panni della bellissima Nelly, Philippe Leroy.
D’Angelo, com’è nato il progetto del sequel di “Milano calibro 9”?
«L’idea è del produttore Gianluca Curti, che sognava di fare il seguito del film realizzato dal padre. Quando mi ha proposto di dirigerlo ho accettato subito: la storia del malvivente Ugo Piazza è grande cinema e Di Leo era un super regista. Oggi i protagonisti sono Marco Bocci, Michele Placido, Ksenia Rappoport, Alessio Boni e la Bouchet che è ancora Nelly e si è messa in gioco come una ragazzina. Bello dal punto di vista umano perché è una donna senza età, simpaticissima e si è molto divertita».
È un fan del poliziesco anni 70, pensa che la storia sia ancora attuale?
«Qui i soldi passano con un click da un continente all’altro, rispetto a
Milano calibro 9 non è cambiato nulla, solo i mezzi. Già il fatto di raccontare, quasi 50 anni dopo, una truffa ai danni di qualcuno in maniera diversa è un ottimo punto di partenza. Il genere cinematografico di serie B oggi sta tornando, con “il genere” si può fare tutto. Calibro 9 parla di criminalità globale: raccontiamo la ‘ndrangheta come un’organizzazione locale che a ogni latitudine può contare su altre realtà».
Dopo aver girato in Calabria ora è ad Anversa, il film uscirà nel 2020. Ci racconta i personaggi?
«Bocci è il figlio di Piazza e Nelly, che lui non ha avuto la possibilità di conoscere. Placido ha il ruolo di Rocco che Adorf interpretava nell’originale, Rappaport è un’avvocatessa russa di origini calabresi. Boni fa il commissario. Il suo obiettivo è mettere contro le famiglie, consapevole che da solo non può farcela. Non utilizza le armi, fa in modo che gli altri si uccidano».
Molti criticano il cinema “di genere”, eppure riempiva le sale. Quando l’ha scoperto?
«Mi ha sempre appassionato, anche Hitchcock faceva cinema di genere e era un grande autore. Ho avuto la fortuna di esplorare un filone che negli anni 70 era considerato di serie B e di cui Tarantino e altri autori si nutrono. Attraverso il genere si può raccontare l’Italia».
Suo padre Nino D’Angelo era d’accordo nella sua scelta di dedicarsi al cinema?
«Ho iniziato a studiare musica al Dams, poi ho fatto cinema. Era la mia passione. Da ragazzino volevo fare il calciatore e poi il musicista. Papà mi ha sempre lasciato libero ma aveva paura che incappassi nel mondo dello spettacolo, le delusioni sono all’ordine del giorno così come il successo e i momenti belli. Da padre ha condiviso la mia passione».
In “Falchi” l’ha coinvolto per un cameo e canta la colonna sonora.
«Lo avrei coinvolto in tante altre cose. Trovo che sia un volto non ancora abbastanza valorizzato dal punto di vista attoriale. Gli anni 80 sono stati talmente forti per lui, per molti registi è rimasto il ragazzo biondo.
Invece ha girato il film di Pupi Avati, Il cuore altrove».
Com’è il rapporto con suo padre?
«Bello. Ho vissuto gli anni 80, le elementari e l’inizio delle medie convinto che fosse famoso come Michael Jackson. Andare in giro con lui era pazzesco. Ma papà è una persona semplice, ha vissuto in modo normale: zii normali, nonni normali, mai frequentato feste di persone famose e importanti. È sempre gentile con tutti e si sente responsabile del pubblico anche se non è il suo pubblico. Un aspetto che rivedo in Marco Bocci, lo tocco e gli dico: ma sei vero o finto?».
Ha visto le fan impazzite?
«Mamme e figlie lo aspettavano in hotel, code interminabili. Marco gentilissimo con tutti: lo sento familiare, non fa la star».
Che rapporto ha con Napoli?
«Anche se sono cresciuto a Roma, il legame è fortissimo per ragioni familiari, papà e mamma, e per le amicizie. Napoli è una città libera, poi si parla di criminalità, certo. Ci sono anche i criminali ma non è solo quello».
Cosa le dispiace?
«Mi dispiace che gli artisti siano sempre in competizione tra loro.
Eppure tra i migliori al mondo ci sono tanti napoletani, basta citare il premio Oscar Paolo Sorrentino, un genio. Mai capito la guerra contro Gomorra, ha dimostrato che ci sono tante teste creative e produttive».
Girerebbe una serie?
«Volentierissimo, sono un appassionato, vedevo Miami Vice di Michael Mann. È l’epoca in cui fare una serie significa fare qualcosa di serio per la tv».