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 2019  agosto 08 Giovedì calendario

Intervista a Giovanni di Lorenzo, l’unico italiano a dirigere una testata straniera, lo Zeit. Parla della stampa, della politica ma non dei tremori della Merkel

È l’unico italiano a guidare una testata straniera di prestigio internazionale. Eppure Giovanni di Lorenzo, da 15 anni direttore del settimanale tedesco Die Zeit, manco voleva fare il giornalista. Il suo sogno era diventare psicoanalista come le due zie paterne – una, Silvia, morta nel 2018, piuttosto famosa – o manager come lo zio Giorgio, che fu assunto da Adriano Olivetti. «Pochi mesi prima della maturità, il tutor di matematica mi disse: “C’è un posto su misura per te”. E mi spedì a fare uno stage in un piccolo giornale di Hannover. Al secondo giorno, mi chiesero un pezzo su Angelo Branduardi. La sera, rincasando sulla mia Fiat 127 scassata, sentii la vocazione». Privo di macchina per scrivere, di Lorenzo si fece prestare una Triumph elettrica più pesante di un’affettatrice. A ogni articolo, cinque rampe di scale per ritirarla e altrettante per restituirla. Alla fine l’amico Heiko, impietosito, gliela cedette per 400 marchi. Fu un ottimo investimento. Infatti, mentre l’editoria mondiale arranca, nei suoi tre lustri di direzione Die Zeit è passato da 460.000 a 500.000 copie e ora è il secondo organo di stampa più venduto in Germania con il tradizionale formato lenzuolo, alle spalle dell’urlatissima Bild. Che nel frattempo è scesa a meno di 1 milione e mezzo di copie: un calo del 66 per cento in un ventennio.
Ha dovuto licenziare?
«Al contrario, grazie a Dio. Erano 100 giornalisti quando arrivai, ora sono 140. Altri 50 lavorano nella redazione online. Faccio le corna tre volte: anche la pubblicità va bene».
Inaudito. Come se lo spiega?
«Non me lo spiego».
La ricetta di Joseph Pulitzer? «Accuratezza, accuratezza e accuratezza».
«Non basta. Penso che c’entri lo Zeitgeist, lo spirito del tempo. Die Zeit non lo asseconda. Molti lettori cercano nei giornali la conferma dei loro pregiudizi. Noi proponiamo qualcosa di audace: il confronto con pareri diversi. A settembre vareremo Streit, litigio, una sezione di quattro pagine, per offrire uno scontro d’idee immune dalla trivialità e dalla premeditazione di chi non vuole capire le ragioni altrui».
Detiene il record di longevità in tv.
«Non so se considerarlo un primato. Conduco da 30 anni “3 nach 9”, il più vecchio talkshow tedesco».
Si è laureato con una tesi su Silvio Berlusconi. Lo ha mai incontrato?
«Più volte. Uomo carismatico. Mi disse una cosa che non ho più dimenticato: “Voi giornalisti pensate che la gente sappia tutto. Invece non sa niente”. Su questo presupposto un po’ cinico ha costruito la propria fortuna».
La frase ha un fondo di verità.
«Me l’ha ribadita un’addetta al controllo dei biglietti che mi ha riconosciuto sul treno Berlino-Amburgo: “Lei mi costa 270 euro l’anno di abbonamento, ma ogni tanto pubblica articoli così difficili da farmi credere che voglia escludermi”. Le ho risposto: si sbaglia, io voglio proprio lei come lettrice».
Abile anche nel marketing.
«Macché. È che a volte non è facile far capire ai giornalisti che bisogna scrivere per i lettori. Una redazione deve rispecchiare la società cui si rivolge. La nostra è formata per metà da donne e abbiamo anche assunto colleghi di origine iraniana, turca, marocchina, polacca, visto che l’immigrazione riguarda un quarto dei tedeschi».
Che cosa cerca in un candidato?
«Una personalità originale e una scrittura avvincente. E non dev’essere un tipo intrigant, non so come si traduca in italiano».
Basta aggiungere una «e».
«L’intrigante avvelena il clima. I colleghi cominciano a occuparsi degli affari loro e viene meno l’energia creativa».
Può sempre licenziarlo.
«In Germania, come in Italia, è molto difficile. Però il periodo di prova dura fino a tre anni. Poi diventa un matrimonio. Di sua volontà non se ne va nessuno. Non so se sia un vantaggio».
Quanto tempo passa al giornale?
«Dalle 8.30 alle 10 lavoro da casa, dove mi è più facile concentrarmi. Poi sto in redazione 12 ore, quando va bene. A volte ci rimango fino a mezzanotte».
Legge i quotidiani italiani?
«Leggo Corriere della Sera, La Repubblica, Marco Travaglio e sempre La Gazzetta dello Sport. Tifo per la Juve».
Nessuno è perfetto.
«Li trovo ben fatti. Ma tutta la stampa tricolore ha un vizio antico: se ti perdi una puntata, non ci capisci più niente. Negli editoriali è imbattibile. I tedeschi forse sono più bravi nei reportage. E nelle interviste: le nostre sono ruvide, le vostre spesso compiacenti».
Nel giornalismo schierarsi paga?
«La partigianeria toglie credibilità».
Ma «Die Zeit» non è di sinistra?
«No, siamo un giornale liberal».
Dirigerebbe una testata italiana?
«In anni recenti me ne hanno offerte due. Ho rifiutato, perché non sarei stato bravo abbastanza. Mi manca la perfetta padronanza della lingua scritta. E poi, non conoscendo l’ambiente, mi avrebbero considerato un marziano».
Segue le nostre vicende politiche?
«Per quello che posso capire. Ho qualche ritegno a commentarle. All’estero l’Italia è vista come folclore anche in questo campo. Sbagliatissimo. È un laboratorio di ciò che accadrà altrove».
Il ritegno da dove scaturisce?
«Da due aspetti che a voi ormai passano inosservati: la volgarità del linguaggio e la delegittimazione delle istituzioni. Anzi, di ogni cosa seria, oserei dire».
Vede un leader nel futuro dell’Italia?
«No, sono miope. E poi ho parlato per cinque minuti con un solo politico, mio vicino di ombrellone in Toscana».
Che cosa le piace dell’Europa?
«Il fatto che sia custode di democrazia, diritti civili e genio. Un contropotere rispetto a Stati Uniti, Cina e Russia».
E che cosa non le piace?
«La deriva dei suoi apparati».
Il sovranismo può distruggerla?
«Certo».
Ma la Lega non ha perso nell’elezione del nuovo commissario Ue?
«Non pensavo a Matteo Salvini, bensì ai nazionalisti dell’intero continente».
Si fida di Ursula von der Leyen?
«Sì, e parlo per conoscenza diretta. È seria, indipendente, molto ben strutturata, disposta a imparare».
Come giudica Angela Merkel?
«Il politico meno vanitoso che abbia mai incontrato. Incorruttibile. Mediatrice internazionale. Ma ha commesso un errore di fondo: nel suo programma non v’era traccia delle decisioni più importanti che poi ha preso. Ciò ha provocato una dissociazione dell’elettorato. Mi riferisco per esempio all’apertura delle frontiere ai profughi. In Germania ne arrivano ancora 170.000 l’anno».
Che cosa pensa di Carola Rackete?
«Difficile esprimere un giudizio, non ci siamo mai parlati. Quando ti dai la missione di salvare vite, non c’è argomento o critica che possano fermarti».
«Die Zeit» si è occupato dei misteriosi tremori della cancelliera?
«Salute e rapporti privati per noi sono tabù. Certo, se un politico antiabortista costringesse la compagna a interrompere la gravidanza, lo scriveremmo».
I tedeschi come vedono gli italiani?
«Tema troppo vasto. Ma l’atteggiamento prevalente è la benevolenza».
Verso i «traditori» dell’8 settembre?
«Semmai i “vigliacchi”. La generazione che nel 1943 ci vedeva così è estinta».
Da italiano ha avuto vita dura?
«All’inizio senz’altro. Quando lavoravo alla Süddeutsche Zeitung, arrivavano lettere di protesta: “Non potevate assumere un giornalista tedesco?”. Nessuno mi ha mai regalato niente. Quel tempo è finito, grazie a Dio».
È la seconda volta che ringrazia il Padreterno. C’entra con il suo lavoro?
«No, però mi onoro di essere supervisore del Rheinischer Merkur, settimanale cattolico di Bonn salvato dalla nostra casa editrice e diventato un supplemento di Die Zeit. Lo considero il foglio religioso più interessante d’Europa».
Di che altro va orgoglioso?
«Di aver lavorato al fianco dell’ex cancelliere Helmut Schmidt, che è stato fino alla morte, avvenuta nel 2015, nostro direttore editoriale».
Quanti passaporti ha?
«Due. Italiano per ragioni di cuore. Tedesco per gratitudine: vivo qui da 49 anni».
Teme il ritorno del nazismo?
«Per nulla. La Germania è vaccinata».