Corriere della Sera, 8 agosto 2019
I diari (segreti) di Giulio Andreotti
È affiorato da uno sgabuzzino come uno di quegli scrigni dimenticati che racchiudono memorie proibite. E, una volta ritrovati, restituiscono storie del passato che apparivano morte e sepolte. Ma stavolta lo «scrigno» è quello dei ricordi di Giulio Andreotti, affidati per oltre 60 anni, dal 1944 al 2009, a circa 180 tra agende, quaderni di appunti, piccoli bloc notes, fogli svolazzanti. «Circa» 180, perché la catalogazione iniziata alcuni mesi fa dai figli Stefano e Serena, custodi degli archivi dell’ex presidente del Consiglio e senatore a vita, è appena cominciata. E non si può prevedere ancora quale sarà la foto di famiglia del potere democristiano e vaticano che alla fine emergerà da quelle agende, ignorate per una decina d’anni come carte senza valore.
Ma scorrendo anche solo una piccola parte di quei diari, negli anni in cui eccezionalmente Andreotti non era al governo, si rafforza l’impressione di un personaggio che faceva politica estera a 360 gradi. Frequentava i papi, allora Giovanni Paolo II. E veniva percepito e usato dal Vaticano come l’uomo nell’ombra incaricato segretamente delle missioni più riservate e delicate: si trattasse di spiegare il papato polacco a sovietici e americani, o di imbastire una trattativa affidatagli in un giorno di Ferragosto dalla Segreteria di Stato per scovare alcune fotografie «rubate» del papa in piscina nella tenuta pontificia di Castelgandolfo. Andreotti doveva farle comprare e impedire che venissero pubblicate in anni in cui la Polonia di Karol Wojtyla era in bilico tra comunismo e democrazia.
E Andreotti, allora semplice deputato, iniziò una laboriosa trattativa col Corriere della Sera di Bruno Tassan Din, allora immerso nella melma della loggia Propaganda due di Licio Gelli, e con l’editore Rusconi. È solo un episodio, seppure significativo, di una consuetudine con quel mondo che fece dire a Giovanni Paolo II nel loro primo incontro: «Lei non è nuovo qui», intendendo gli ambulacri vaticani. D’altronde, Andreotti è il politico al quale il segretario di Paolo VI confidò che dopo l’attentato a papa Montini nelle Filippine del 1970, il presidente Ferdinando Marcos era pronto a pagare 50 mila dollari perché si dicesse falsamente che era stato lui a fermare l’attentatore, e non monsignor Macchi.
I diari sono una miniera di analisi di prima mano, aneddoti e retroscena sconosciuti. E confermano una rete di relazioni mondiali senza confini né remore geopolitiche. Il futuro senatore a vita poteva incontrare il presidente argentino Juan Perón, ammiratore degli alpini italiani e delle loro filastrocche da caserma sulle «osterie numero...», intonate durante un incontro ufficiale a Buenos Aires davanti a Andreotti, lievemente interdetto. Discorreva con dittatori del recente passato, alcuni morti ammazzati come il rumeno Ceausescu e il libico Muhammar Gheddafi. Nelle agende vengono riportati in dettaglio i colloqui con il cubano Fidel Castro e con esponenti di spicco della nomenclatura sovietica.
Emergono tutte le incognite di un passaggio epocale coinciso con l’arrivo di Giovanni Paolo II e poi con l’elezione di Ronald Reagan alla Casa Bianca: un esito anticipato a Andreotti dal numero uno della Fiat Gianni Agnelli, in uno dei tanti colloqui trascritti nei diari. Verrebbe quasi da dire che è questo il «vero» archivio segreto: se non altro perché in massima parte sono appunti scritti di suo pugno, quasi giorno per giorno.
Anche se decifrarli non appare un lavoro facile. Soprattutto negli anni dopo il Duemila, la calligrafia si è come rattrappita con l’età. Gli stessi figli confessano di faticare a leggere le frasi, a capire cosa il padre intendesse quando usava nomignoli o soprannomi per alcune persone. Ma forse è proprio questa indeterminatezza a rendere la scoperta più intrigante.