Corriere della Sera, 8 agosto 2019
Doveva scontare 168 anni di carcere e invece ora è un uomo libero. È successo al boss Domenico Paviglianiti
Da ergastolano pluriomicida a scarcerato in via definitiva, da boss di ‘ndrangheta con teorici 168 anni da scontare a invece uomo libero, senza più pendenze con la giustizia dopo 23 anni di cella: è una parola data ma non rispettata, è l’aver, l’Italia, promesso alla Spagna ma non mantenuto di non infliggergli l’ergastolo ad innescare la carambola procedurale che spalanca le porte del supercarcere di Novara al 58enne Domenico Paviglianiti, al 41 bis dalla sua estradizione nel 1999 dalla Spagna.
Accusato di sette delitti e tre tentati omicidi nella guerra tra i clan Trovato-Flachi e Batti, ricercato per associazione mafiosa e traffico di droga e bazooka, coinvolto nel 1990 nell’assassinio a Tradate (Varese) del figlio Roberto del capo della camorra Raffaele Cutolo (in uno scambio di favori dal quale la ‘ndrangheta ottenne in cambio dalla “Nuova famiglia” di camorra l’uccisione di Salvatore Batti), Paviglianiti viene catturato in Spagna il 21 novembre 1996, ed estradato il 17 dicembre 1999 in Italia a condizione che non gli venga inflitta «una carcerazione a vita indefettibile», ergastolo all’epoca non previsto in Spagna (che l’ha reintrodotto nel 2015). E infatti ancora il 14 marzo 2006 il ministero della Giustizia italiano si impegna a garantire che l’ergastolo «non implica che i condannati debbano comunque restare detenuti in carcere per tutta la vita, perché possono usufruire in ogni tempo» di benefici quali «permessi premio» (dopo 10 anni espiati), «semilibertà» (dopo 20) e «liberazione condizionale» (dopo 26).
Ma una volta estradato in Italia, la Procura generale di Reggio Calabria il 12 luglio 2012 fa scattare per Paviglianiti la norma che applica l’ergastolo a chi abbia più di due condanne superiori a 24 anni (e Paviglianiti, su 9 sentenze, ne ha 4 a 30 anni per altrettanti delitti). Ma soprattutto è l’«ergastolo ostativo» che ai condannati per i gravi reati dell’articolo 4 bis sbarra qualunque beneficio: tanto che, in 23 anni, Paviglianiti esce solo 2 ore – scortato dagli elicotteri – per la morte della madre.
Ma non erano questi i patti con la Spagna, eccepiscono dal 2015 i suoi avvocati Mirna Raschi e Marina Silvia Mori in una matassa di istanze che nel 2018 la Cassazione affida da sbrogliare al gip di Bologna in un «incidente di esecuzione». E ora il gip Gianluca Petragnani Gelosi, dopo 10 mesi di riflessione dall’1 ottobre 2018, constata che «le modalità detentive dopo l’applicazione dell’ergastolo abbiano certamente frustrato le aspettative della Spagna nel momento in cui accordava l’estradizione», e che «è stato violato il principio della buona fede internazionale da parte dello Stato italiano, che alla Spagna doveva dar conto della norma restrittiva dell’art. 4 bis». Tanto più che il 13 giugno, aggiunge il gip, sull’ergastolo ostativo la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
E qui comincia l’effetto-domino. L’ergastolo viene via, sostituito dalla massima detenzione temporanea ammessa in Italia, 30 anni, qualunque sia il cumulo di pene (qui 168 anni). Paviglianiti ne ha scontati sinora 23. Ma vanno aggiunti 3 anni e mezzo «fungibili» ad altro titolo, 3 anni di indulto, e 1.815 giorni di «liberazione anticipata» (45 giorni automatici ogni 6 mesi espiati). E cosí Paviglianiti ha già raggiunto e anzi superato il tetto dei 30 anni. E il giudice deve ordinarne «l’immediata scarcerazione».