La Lettura, 4 agosto 2019
La guerra mondiale di Priamo
La grande mostra Troy. Myth and Reality che avrà luogo a Londra (British Museum) in autunno comprenderà ogni aspetto del «mito» della lunga guerra che portò alla distruzione della città di Priamo e alla morte eroica del suo figlio più dotato, Ettore. Poiché si prevede anche un settore sulla fortuna cinematografica di quella celebre guerra – oggetto del più antico e più importante testo prodotto dalla cultura occidentale (Iliade) – si può immaginare che uno spazio sarà riservato anche al troppo criticato Troy, del quale va comunque riconosciuta l’aderenza alla realtà antica nel riprodurre filmicamente le tecniche di sbarco in un Paese nemico. Un dettaglio non ovvio se si considera l’importanza di quel momento esordiale (il D-Day della guerra di Troia) in tutto lo svolgimento del conflitto. Un’altra ragione che può avere indotto il British Museum a investire energie nella preannunziata mostra sarà forse che quella guerra che portò dopo un decennio alla distruzione della Troia di Priamo fu, a suo modo, una «guerra mondiale» combattuta nel punto nevralgico dove il Mediterraneo lambisce l’imbocco del Mar Nero: «l’area di crisi» – si direbbe oggi – su cui convergevano e dove si scontravano imperi anche geograficamente remoti. È facile osservare che anche oggi una delle aree dove conflitti apparentemente locali, e pilotati «per procura», possono sfociare in un conflitto generale è pur sempre quella del Mediterraneo orientale (e delle sue propaggini oltre Suez).
Oggi parliamo fondatamente di quel decennale conflitto databile intorno all’anno 1200 a.C. come del punto focale di una ben più vasta crisi. Libri recenti e di diverso impianto e diverso stile come La guerra di Troia (2006) di Barry Strauss (tradotto l’anno dopo per Laterza) e 1177 a. C. Il collasso della civiltà (2014) di Eric H. Cline (tradotto l’anno stesso per Bollati Boringhieri) hanno allargato il nostro orizzonte. E possiamo considerare quel conflitto soprattutto alla luce di un dato che nel poema omerico pur s’intravede quando si fa cenno agli eserciti che dall’esterno erano sopraggiunti a sostegno di Priamo. Il cui regno era, in realtà, nell’orbita dell’impero ittita, la potenza «mondiale» che premeva verso l’area mediterranea, che aveva inchiodato il faraone Ramsete II a Qadesh (1274 a.C.) e che si trovava inevitabilmente in rotta di collisione con le grandi monarchie micenee. Tra l’altro – siamo al culmine della tarda Età del Bronzo – era in ballo anche il possesso dello stagno e del rame, materiali indispensabili per la costruzione di armi in bronzo. Ha osservato in proposito Carol Bell (The Merchants of Ugarit, 2012) che l’importanza strategica dello stagno nella tarda Età del Bronzo non era probabilmente molto diversa da quella del greggio oggi. Le miniere di stagno allora rinomate erano nell’area dell’odierno Afghanistan, e il prezioso materiale veniva trasportato via terra verso la Mesopotamia e fino alla Siria, da dove veniva smerciato nel Mediterraneo orientale, soprattutto nelle località che affacciavano sul Mare Egeo.
Ben prima di Priamo, Troia, nella sua strategica posizione a guardia dei Dardanelli, unico punto di passaggio tra l’Egeo e il Mar Nero, aveva condotto una sua politica di «grande potenza regionale» barcamenandosi tra il potente impero ittita, di cui era un satellite, e i Micenei «padroni» dell’Egeo. Non è escluso che proprio la pace di compromesso tra Hattušili III (ittita) e Ramsete II, effetto della conclusione non risolutiva della memorabile battaglia di Qadesh (Ramsete sposò la figlia di Hattušili), abbia consentito all’impero di interessarsi attivamente al conflitto conseguente all’attacco dei Micenei («Achei») coalizzati contro Troia. Eric Cline mette opportunamente in rilievo che «dai testi conservati nell’Archivio di Stato della capitale ittita Hattuša» apprendiamo di un potentato suddito ittita «rinnegato», di nome Piyamaradu, il quale «aveva tentato di destabilizzare la situazione politica nella regione di Mileto (Anatolia occidentale)», «in combutta con gli Ahhiyawa» (gli Achei, i Micenei appunto). Episodio interessante: questo sovrano (il cui nome rassomiglia a quello del più noto, grazie a Omero, Priamo) giocava una sua partita disinvolta tra Ittiti e Micenei, interessati entrambi a controllare Wilusa (cioè Ilio, cioè Troia) per le molteplici ragioni geopolitiche cui s’è fatto prima cenno. La constatazione, di cui siamo debitori all’archeologia, delle varie città distrutte e risorte nell’area di Wilusa, va messa in relazione – con ogni probabilità – con questo spregiudicato «giocare in proprio» la partita politico-militare da parte dei «predecessori» di Priamo. Un documento attesta che il «rinnegato» Piyamaradu si era addirittura assicurato diritto d’asilo presso gli Ahhiyawa.
È bene dunque riconoscere che è per merito dell’ostinato dilettante Heinrich Schliemann (1822-1890), cocciutamente proteso a rintracciare sul terreno la città dell’Iliade, che siamo in grado di tentare questo genere di ricostruzioni di una storia così remota e mal documentata. Quella città non era un’invenzione poetica. Era davvero esistita ed era stata distrutta e incendiata. Certo, Schliemann era quasi un «poco di buono». Oggi sappiamo molto su di lui, sul «furto», da lui operato, delle scoperte e del lavoro dell’inglese Frank Calvert. Se ne occupò – tra gli altri – Louis Godart («Corriere della Sera» 23 gennaio 2006). Sapevamo da ben prima che il suo Diario degli scavi condotti a Micene è inquinato da falsità (William Calder III, David Traill, The Heinrich Schliemann controversy and a first edition of the Mycenean Diary: Myth, Scandal and History, Detroit 1986).
Non è qui il caso di riprendere la questione. Sta di fatto che, comunque, la sua azione – cui non fu estranea la sua capacità di infilarsi nelle stanze dei potenti, in particolare del premier inglese Lord Gladstone – è stata decisiva sul piano sostanziale: anche se tra i vari strati del sito di Hissarlik (dove lui scavò e «trovò» Troia) Schliemann non seppe bene orientarsi. Oggi alcuni pensano (sulla scia di Carl Blegen ad esempio) che la Troia di Priamo sia Troia VII, che invece Eric Cline ritiene distrutta circa nel 1180, invasa dai «Popoli del mare» piuttosto che dai Micenei. Schliemann resta un grande protagonista dell’intreccio tipicamente ottocentesco tra falso e vero (si pensi al suo coetaneo e meno fortunato Costantino Simonidis) sì da meritarsi un’efficace biografia ad opera di Emil Ludwig (Storia d’un cercatore d’oro) ghiottamente tradotta in Italia da Mondatori (1932) nella collana «Tutte le opere di Emilio Ludwig», sulla cui copertina campeggia la virtuosa Sofia Schliemann (seconda moglie di lui) addobbata con i presunti «gioielli aurei di Elena». Grande «trovata» ad effetto quella del «tesoro di Priamo» (sul cui effettivo ritrovamento pesano varie ombre), che fu poi, dopo il 1945, oggetto di prelievo e (forse) di restituzione tra Germania sconfitta e Urss dissolta. Per non parlare della problematica maschera funeraria di Agamennone.
Ma qui vogliamo affrontare un altro aspetto della questione: lo studio storico-antiquario dell’Iliade dal suo sorgere. Intendiamo, con ciò, l’utilizzo dei poemi omerici, e in particolare dell’Iliade, come fonte: al di là dell’imponente ruolo giocato, sin da molto presto, dal corpus omerico come modello artistico, poetico, metrico, dialettale. Il ciclo troiano è elemento costitutivo della tragedia attica e secoli dopo Quinto Smirneo comporrà Posthomerica.
Risaliamo al principio. Siamo di fronte a due grandi lettori, attivi nel V secolo a. C.: Erodoto e Tucidide. Erodoto colloca al principio della sua Ricerca (Historíe: così egli denomina la sua opera) un’ampia rassegna di rapimenti di donne, e tra questi il «caso» di Elena portata a Troia dallo spasimante Paride e perciò casus belli e causa di infinite morti e rovine, come antefatto mitico del conflitto Oriente/Occidente, che è il tema riunificante dell’intera sua opera. Ma è molto netto nel prendere le distanze da quelle remote narrazioni, da lui attribuite ai «sapienti» persiani, giacché per lui la storia documentabile come tale incomincia molto dopo: con Gige, con Creso, con Solone. Per tutto ciò che viene prima la sua ben nota e prudente formula è: non è mio dovere crederci. In epoche di molto successive la tradizione inventò un suo scritto su Omero: ma è chiaro che l’utilizzo storico-antiquario della fonte omerica non lo coinvolge.
Tutto cambia con Tucidide, il quale mette a frutto l’Iliade alla maniera degli studiosi moderni, cercandovi indizi («segni», tekméria), per esempio sull’entità delle forze militari, sulla portata effettiva delle navi (e tenta di estrarre dati «statistici» dal ben noto e studiatissimo «Catalogo delle navi» del II libro), sull’effettiva natura dei poteri di Agamennone, sulla vera ragione – economica e perciò militare – della interminabile durata del conflitto. Anzi, a suo giudizio, quella durata abnorme è indizio proprio della relativa limitatezza delle forze che gli «Achei» avevano potuto mettere in campo. (Il che lo rinsalda nella sua convinzione secondo cui grandi non furono né la guerra troiana né le stesse guerre persiane, bensì – sopra ogni altra – quella tra Sparta e Atene, da lui direttamente vista e vissuta).
Per avere un’idea del suo utilizzo della fonte omerica basta questa memorabile pagina dalla cosiddetta «Archeologia» con cui si apre il primo libro. Punto di partenza è la composizione della flotta. Parte dall’osservazione relativa alla capienza di queste imbarcazioni, e in particolare dal fatto che Omero indica un massimo (le navi beotiche con 120 uomini a bordo) e un minimo (le navi di Filottete con 50 uomini a bordo) con ciò fornendo un indizio per quel che riguarda l’entità numerica del corpo di spedizione. Quindi prosegue: «E che tutti fossero al tempo stesso rematori e combattenti lo dimostra il modo in cui si esprime a proposito delle navi di Filottete, giacché definisce arcieri tutti i rematori. D’altra parte non è probabile che si fossero imbarcati molti altri oltre i sovrani e i maggiorenti».
Ne consegue che la campagna militare dovette affrontare, per i Greci, il problema fondamentale dell’approvvigionamento: «Quando, una volta giunti, furono vinti in un primo scontro, neanche allora adoperarono tutto intero il corpo di spedizione per le operazioni militari, ma in parte si volsero a coltivare il Chersoneso e alla pirateria: sempre per scarsezza di approvvigionamenti».
È una magnifica pagina di critica indiziaria alle prese con un’unica fonte superstite. E, aggiungiamo, una fonte elaborata almeno tre secoli prima (se si colloca la stesura a noi giunta dell’Iliade nell’VIII secolo) e che parla di fatti di almeno quattro secoli prima (se si pone il decennale conflitto tra il 1200 e il 1180). È vero che di mezzo c’era stata la catastrofe dell’anno 1177 che travolse i due imperi rivali e vide solo dopo molto tempo una ripresa, un nuovo inizio (per la Grecia, il mondo frantumato e conflittuale successivo al tracollo delle monarchie micenee). Ma quando Omero dà vita all’epos che racconta la grande guerra che aveva segnato quel mondo scomparso, mescola necessariamente realtà antiche e realtà del tempo suo. E questo rende delicato per noi l’utilizzo dell’Iliade come fonte storico-antiquaria: per esempio per quel che attiene alla tecnica bellica. Nell’Iliade prevalgono i duelli individuali tra capi che combattono dal carro e a un certo punto balzano a terra: ma questa non era la tecnica bellica dell’Età del Bronzo, testimoniata per esempio dai cinque bassorilievi egizi che raccontano la battaglia di Qadesh.
Insomma l’Iliade, più ancora dell’Odissea, è diventata, proprio per tale stratificazione culturale, un’enciclopedia. «Enciclopedia tribale» la chiamò Havelock. Ed è una felice definizione, se si considera che dentro c’è tutto: dall’epica al diritto, al rito, alla fede religiosa, alla visione dei rapporti familiari eccetera; e che in un certo senso al centro di essa c’è lo scudo di Achille su cui è istoriata tutta la realtà. È per il mondo greco, ed è stata a lungo anche dopo, l’equivalente dell’Antico Testamento per il mondo ebraico. Quanto all’interminabile guerra – di cui l’Iliade narra soltanto un episodio – essa fu significativamente percepita dalle generazioni venute dopo come una colossale falcidia di tutti i basileis (re) che vi avevano preso parte (tranne Odisseo). Ma divenne, poi, simbolo parimente orientale e occidentale. Serse (480 a.C.) fece tappa a Troia prima di invadere la Grecia quasi a significare la vendetta dell’Asia contro i Greci; e Alessandro (334 a.C.) fece tappa alla «tomba di Achille» prima di infliggere il colpo di grazia all’impero persiano. E Roma, in certo senso creazione troiana, conquistò, circa un secolo più tardi, la Grecia, per esserne, come diceva Orazio, a sua volta conquistata.