il Fatto Quotidiano, 7 agosto 2019
La brutta fine degli attori di Gomorra
Che non fosse solo cinema si capì al penultimo giorno di riprese. Si girava la scena iniziale, destinata a cambiare per sempre il mafia movie per come lo conosciamo. Consapevole che “una delle grandi forze di questo film è che non lascia scampo”, e nemmeno alla fin lì consolidata antropologia visuale mafiosa, Martin Scorsese si concedette l’onore delle armi e prese congedo con i suoi Goodfellas: non era più tempo di polpette al sugo e retaggi, canzonatura e spietatezza, Joe Pesci e Bob De Niro. Serviva cambiare, giacché – avrebbero convenuto Roberto Saviano e Matteo Garrone – “oggi è il cinema a creare l’immaginario criminale e non viceversa”.
Le luci sono del solarium, ma l’esito autoptico: il vecchio boss è morto e sepolto, l’homo novus ha avuto licenza di ucciderlo. Garrone certifica il passaggio di testimone, meglio, il passaggio di stato dalla solidità tetragona di Quei bravi ragazzi all’aeriforme Gomorra: “I boss sono cambiati anche dal punto di vista antropologico, oggi vestono alla moda, frequentano i centri estetici, hanno un aspetto rassicurante e un sorriso accattivante. Fisicamente, oggi i boss di Scampia somigliano a Fabio Cannavaro”.
La forma cinematografica è destinata a plasmare la sostanza criminale, però tra realtà e finzione il rapporto è dapprima osmotico: né solido né gassoso, il set è liquido, chi dà consigli lo fa perché sa, perché è.
Dunque, il solarium al posto del ristorante, e una constatazione: la materia è estetica, la prassi di estetista. C’è l’eredità dei barber shop, l’iconico teatro delle ammazzatine dei gangster d’antan, certo, ma tra una doccia solare e una manicure al Villaggio Coppola va in scena la rivoluzione: con Mao, non è un pranzo di gala. E non è nemmeno un pasto nudo, è digiuno.
Le dodici settimane di lavorazione stanno per terminare, sono le 19.15 e la logica produttiva stabilisce di andare in pausa: ci si ferma, non c’è chi tra i mestieranti eccepisca. Anzi, no, c’è un attore che guarda tutti un po’ spiazzato e un po’ saccente: “Ma che fate, andate a cena? Ma siete matti!?”. Il perché è un coro, la risposta greca, nel senso di tragica: “Non si spara a stomaco pieno”. Osserveranno dalla troupe, è come un notaio che insorge di fronte a un protocollo sbagliato. E ha ragione lui: la scena dell’esecuzione multipla girata dopo cena non va, non viene. Il giorno dopo è quello giusto, perché è l’ultimo, perché non si può sbagliare: shoot, in inglese girare e sparare, dice tutto. Concentrati, coordinati e digiuni, cast e crew si muovono come i sicari della finzione: ciak e colpi andranno ugualmente a segno, Gomorra ha il suo inizio e la sua fine insieme.
A sparare è anche Salvatore Russo, il “notaio” che predica l’astinenza dal cibo: lo ritroveremo nella Storia di Marco e Ciro a tirare contro i ragazzini per testarne il coraggio dietro il giubbotto antiproiettile. Se il 26 febbraio del 2014 ad Arzano un duplice omicidio di camorra ha scelto un solarium analogo per location, lo stesso Russo eccede la finzione: nel novembre del 2016 finisce in manette per spaccio, piazza domiciliata al Lotto P di Scampia, le famigerate Case dei Puffi. Della serie, impara l’arte e mettila da parte.
Non è l’unico a fare di persona personaggio, e viceversa, e c’è chi scambia iterazione per maledizione, la maledizione di Gomorra.
Nel 2015 viene arrestato a Castel Volturno Pjamaa Azize, pusher non solo sullo schermo: tre anni prima era toccato a Nicola Battaglia, uno dei protagonisti del rituale di iniziazione di Russo. Sempre nel 2012 a Castel Volturno è la volta di una comparsa, Marcello D’Angelo. Come in un film, appunto, ci sono i ruoli principali: Giovanni Venosa, il capoclan che decreta la morte di Marco e Ciro, è condannato a tredici anni di reclusione per estorsione. Ancor più gravosa la pena comminata a Bernardino Terracciano, l’equipollente boss Zì Bernardino: ergastolo per duplice omicidio.
Peggio, ma la giustizia non c’entra nulla, è andata a Salvatore Cantalupo, morto a soli 59 anni il 13 agosto dell’anno scorso: attivo a teatro prima che al cinema, interprete sobrio e raffinato, per Garrone è stato il sarto Pasquale, a cui ha saputo dare nitore e ineluttabilità.
Del film, che fu Grand Prix a Cannes nel 2008, ebbe a dire anche l’exemplum Fabio Cannavaro: “Per l’Italia spero che Gomorra vinca l’Oscar. Ma non penso che gioverà all’immagine del nostro Paese nel mondo. Abbiamo già tante etichette negative”. Vincere, si capisce, non è tutto: siano gli Oscar o i Mondiali.