il Fatto Quotidiano, 7 agosto 2019
Sgarbi rischia il processo per aver autenticato opere d’arte false
“Deficienti, criminali, delinquenti”. Vittorio Sgarbi ce l’aveva con i carabinieri. In una delle sue sfuriate finite tra gli atti di un’inchiesta giudiziaria e rimaste finora segrete, appella in ogni modo gli investigatori del Nucleo Tutela per il patrimonio Artistico dell’Arma colpevoli di aver sequestrato opere dell’artista scomparso nel 1998 Gino de Dominicis, ritenute false e di cui proprio Sgarbi aveva firmato l’autenticità. Un’operazione compiuta nel novembre 2018, ma di cui non sono mai emersi i dettagli.
La vicenda risale al 2018 quando la Procura chiede e ottiene i domiciliari per due persone e ne indaga altre 21. Tra queste Sgarbi, accusato di aver autenticato false opere d’arte. Le indagini sono proseguite e qualche mese fa l’inchiesta è stata chiusa: adesso il critico d’arte rischia il processo. I fatti contestati vanno da un periodo compreso tra il 2014 e il 2018.
È quindi il 2 luglio 2014 quando esplode la rabbia di Sgarbi, all’epoca presidente della Fondazione dedicata all’artista marchigiano. Mentre i carabinieri stanno sequestrando opere in diverse parti d’Italia, il critico d’arte sbotta e parlando al telefono con altri indagati urla di tutto: “Stronzi… cornuti”. Poi chiama i vertici dell’Arma dei carabinieri e persino la segreteria dell’allora ministro della difesa, Roberta Pinotti. Contatta i giornalisti, pianifica una controffensiva: “Sono in guerra, cioè questi devono morire”.
E dalle centinaia di pagine contenute nei faldoni dell’indagine che ha portato due persone ai domiciliari, emergono, oltre all’accusa nei confronti di Sgarbi, anche le modalità con cui gli altri indagati trafficavano. I carabinieri, ad esempio, documentano in un’occasione il trasporto di una delle opere attribuita a de Dominicis come un pacco qualunque: la presunta opera d’arte “sostanzialmente incustodita e senza alcuna particolare cautela” viene imbarcata nel vano bagagli di un autobus che da Macerata arriva a Roma. Per il giudice è un “ulteriore suggello dell’inverosimiglianza dell’autenticità dell’opera” che si aggiunge alle valutazioni del consulente della Procura, Isabella Quattrocchi, e agli altri riscontri dei militari. Per gli investigatori l’autorevolezza del critico d’arte è fondamentale per gli scopi dell’associazione a delinquere (di cui Sgarbi non fa parte) diretta da Marta Massaioli, vice presidente della Fondazione: un gruppo per l’accusa attivo già dal 2008 responsabile di “contraffazione, autenticazione, detenzione, commercializzazione, ricettazione e truffa di opere d’arte false attribuibili ed a firma dell’artista Gino de Dominicis, e di altri artisti contemporanei tra cui De Chirico, Fontana, Carrà, Capogrossi e altri”.
Oltre alle intercettazioni, secondo l’accusa, a dimostrare le responsabilità degli indagati ci sono anche servizi di appostamenti e filmati. Uno di questi è stato realizzato a giugno 2014 quando Sgarbi firma le autentiche delle opere che la Massaioli gli sottopone: “L’operazione di expertise – scrive il giudice nell’ordinanza – è avvenuta senza una visione diretta delle opere, ma al massimo attraverso una riproduzione fotografica delle medesime, in maniera del tutto inusuale, ovvero nella hall dell’albergo, con la Massaioli Marta seduta in ginocchio di fronte Sgarbi Vittorio, il quale firma le schede delle opere che di volta in volta vengono estratte dal raccoglitore dalla Massaioli. In un frangente – aggiunge il magistrato – viene addirittura ripreso Sgarbi Vittorio che, mentre parla al telefono, continua a firmare, in modo superficiale, senza cura e attenzione, le schede delle opere di Gino de Dominicis”.
Durante le indagini gli inquirenti sequestrano oltre 170 certificati di autentica di cui ben 119 firmati proprio da Sgarbi. E quando la notizia dei sequestri si diffonde, lui monta su tutte le furie: parlando al telefono con la compagna, la avverte che i militari potrebbero recarsi a casa sua per sequestrare un’opera che ha ricevuto come compenso per il suo ruolo di presidente della fondazione. “Potrebbero venire anche a casa eh! Non è escluso, mettilo non so che facciamo… mettilo in cantina, roba da pazzi! Hanno sequestrato un Trittico dove gli ho fatto un libro io, pensa… ma io ho chiamato, non so, adesso vado dal ministro della Difesa e mi faccio, non si sa come fare a resistere a questi ignoranti, incapaci, delinquenti”. E quando la donna chiede cosa fare del quadro, Sgarbi è lapidario: “Brucialo!”, salvo poi tornare sui suoi passi dicendo “No, non fare niente, se fanno una cosa a me diventa ancora peggio per loro, perché io li massacro, vado dai due ministri, poi mercoledì faccio la conferenza stampa, sputtanando i carabinieri per tutta la vita”.
Ed è su quel quadro che si sono addensate alcuni nubi: nell’inchiesta, infatti, il gip di Roma Daniela Caramico D’Auria, scrive che “di fatto, non è dato sapere se effettivamente l’opera sia stata in qualche modo occultata”, ma per il magistrato “l’affermazione evidenzia tuttavia la consapevolezza del critico d’arte che possa trattarsi di un’opera dubbia, verosimilmente falsa”.
Quando la vicenda arriva, qualche tempo dopo quelle telefonate agli organi di stampa Sgarbi ancora una volta si difende a modo suo. Attaccando. Se la prende ancora con i carabinieri, ma anche con il pm Laura Condemi che aveva coordinato l’inchiesta. Per il parlamentare quelle opere sono “autentiche” e “mai il nucleo di Tutela del patrimonio artistico dei Carabinieri era arrivato più in basso mettendo l’ignoranza al servizio della cecità e della mancanza di giudizio di un magistrato”.