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 2019  agosto 07 Mercoledì calendario

In morte di Toni Morrison

Un modo per definire la grandezza di Toni Morrison, scomparsa il 5 agosto a 88 anni, è pensare che Laurence Olivier diceva che Dio aveva prestato il suo sguardo a William Shakespeare. Se Dio è il vecchio con la barba dell’arte europea ha ragione Olivier, ma se Dio è una donna nera allora ha sicuramente prestato il suo sguardo a Toni Morrison.
Un altro modo per definire la grandezza di Toni Morrison è pensare che dieci lettori che la considerano la loro scrittrice preferita indicheranno probabilmente dieci libri diversi per dieci motivi diversi (ha firmato in tutto undici romanzi).
Un altro modo ancora è pensare che il lutto globale che ora accomuna tutti coloro che amano i suoi libri attraversa inevitabilmente anche i social media dove continuano a fioccare le citazioni, e ognuno ricorda una frase diversa, perché leggere Morrison significa essere illuminati, pensare al mondo in modo diverso attraverso la priorità assoluta del lavoro di questa scrittrice, il linguaggio, la lingua inglese senza tempo che mutuò dall’unico modello possibile per lei, la Bibbia nella traduzione seicentesca di re Giacomo d’Inghilterra. È la lingua dei discorsi di Abraham Lincoln, di Moby-Dick, e dei libri di Morrison.
Morrison che nacque Chloe Anthony Wofford il 18 febbraio 1931 a Lorain, Ohio, e pubblicò il suo primo libro alla vigilia dei quarant’anni, professoressa di mezza età e di colore mandata al macello editoriale in un sistema industriale-culturale come quello americano che da quasi un secolo accomuna il talento a un necessario, fulminante esordio giovanile.
Morrison aspettò quarant’anni prima di pubblicare per lo stesso motivo per il quale Riccardo Muti ha spiegato che aspettò quell’età prima di dirigere per la prima volta la Nona di Beethoven – per certi temi non bisogna guardare alla propria maturazione tecnica, ma alla propria maturazione come esseri umani. Semplicemente, per andare così in profondità, doveva aspettare. Vivere. «Non mi sono interessata alla scrittura fino circa ai trent’anni. Non lo consideravo davvero come scrivere, anche se stavo scrivendo parole sulla carta. Lo consideravo un processo di lettura molto lungo e prolungato, però ero io a produrre le parole».
Parole che distruggevano muri, stereotipi, pregiudizi: L’occhio più azzurro (Frassinelli e poi Meridiani Mondadori) è il suo esordio abbagliante che nel 1970 spiazza i critici americani troppo educati per reggere l’urto di quella prosa e di quei contenuti – una ragazzina nera che sogna gli occhi azzurri perché il razzismo che la circonda e la crudeltà degli altri neri l’hanno convinta di essere un mostro. Stuprata dal padre, truffata da un ciarlatano che le promette gli occhi azzurri, le cadenze del libro di Giobbe nel romanzo d’una professoressa sconosciuta di mezza età con un nome da uomo e senza alleati potenti nel mondo editoriale e nei giornali.
La salva dall’oblio l’accademia che per una volta riconosce la grandezza a colpo sicuro: «È diventare compito a casa per gli studenti il segreto del successo», spiegherà lei senza amarezza tanti anni dopo, dopo il Pulitzer e dopo il Nobel, prima afroamericana a ricevere l’omaggio dell’Accademia.
Ci vuole Sula, tre anni dopo, per tenere in vita il nome di Morrison nel mondo editoriale americano fino al terzo romanzo, Il canto di Salomone che nel 1977 attraversa l’America e il tempo per raccontare, mediante le vite dei neri, ogni altra cosa: Morrison espande la costruzione di quella che rapidamente diventa una commedia umana mai vista prima nella letteratura del suo Paese – più che a uno scrittore, se non a «J», il cosiddetto autore yahwista tra le sorgenti storiche della Torah, viene da paragonarla a un musicista, a Giuseppe Verdi, per l’ambizione di raccontare la totalità dell’esperienza umana, la gioia e le lacrime, il potere e la sottomissione. Come Verdi, Morrison è amatissima ma anche considerata eccessiva, perché il suo linguaggio e la sua ambizione hanno sempre il volume regolato al massimo, per scelta e per necessità e per dichiarazione d’intenti.
Nel 1988 con Amatissima arriva il Pulitzer e la gloria delle classifiche e la certezza che per il Nobel sarà solo questione di tempo, e infatti arriverà cinque anni dopo.
Morrison diventa suo malgrado la profetessa con le trecce, sempre abbracciata con circospezione perché non controllabile nella forza davvero biblica della sua indignazione prima ancora che del suo stile.
Chi la conobbe negli anni della gloria ricorda una donna allergica al cerimoniale – per temperamento ma anche per quel successo arrivato così tardi per i tempi dell’editoria di New York, sapeva che la gavetta è poco gradevole e per questo distingueva la sincerità dell’amore dall’ossequio. Una professoressa attenta e generosa, superstar letteraria refrattaria alle serate editoriali-letterarie che, quando capitava, preferiva chiacchierare di tv (magari del suo show preferito, Law & Order con Vincent d’Onofrio che adorava, e c’è da sperare che qualcuno glielo abbia fatto sapere per tempo).
Appoggiò con il suo prestigio l’allora senatore Obama improbabile candidato alla Casa Bianca perché sapeva che a volte i sogni impossibili si avverano. A volte succede anche con gli incubi: dovette seppellire uno dei due figli, Slade, 45enne, e smise di scrivere per il dolore quello che sarebbe diventato il suo decimo romanzo, A casa. Poi raccontò di aver pensato che, se suo figlio l’avesse vista, non le avrebbe fatto grandi discorsi, ma le avrebbe detto di non dare la colpa a lui se non riusciva a finire un libro – era fatta così, incapace di autocommiserazione. Quando finalmente uscì, il suo decimo e penultimo romanzo, lasciò allibiti per la sua brutalità.
Il modo più bizzarro di definire la grandezza di Toni Morrison è pensare che il tributo più semplice ed elegante ieri è stato quello non di un poeta ma di un uomo d’affari, l’amministratore delegato della Apple Tim Cook che via Twitter – un medium che con la voce biblica dei libri di Morrison non c’entra nulla – ha copiato la sua citazione preferita, una delle centomila possibili, e ha semplicemente aggiunto «grazie per tutta quella bellezza».
Il modo che forse le piacerebbe di più, ed è bello e giusto che sia capitato quando era ancora viva e abbia potuto ascoltare queste parole sorridendo, è il modo in cui il primo presidente nero parlò di lei conferendole la più alta onorificenza civile americana, la Medaglia della Libertà: «Ricordo che da ragazzo lessi Il canto di Salomone: non mi fece pensare soltanto a come si scrive, ma a come si è, e come si pensa».