il Giornale, 6 agosto 2019
I libri proibiti che con sesso, scandali e satira diedero il la alla rivoluzione francese
Alla viglia della Rivoluzione francese, Parigi era una gigantesca rete di comunicazione: ogni angolo della città ne era toccato, qualsiasi bruit, mormorio, chiacchiera, commento, quelli che oggi definiremmo discorsi politici, veniva riportato e trasmesso. Alla pratica orale si accompagnava la parola scritta, pamphlet politici, satire anticlericali, fantasie utopiche, diffamazioni giornalistiche, pura e semplice pornografia. Era un fiume in piena di carta stampata riassumibile in un’unica etichetta: livres philosophiques, illegali per il modo con cui venivano stampati e venduti, appetibili oltre ogni dire per un pubblico desideroso di andare oltre la pura e semplice agiografia di corte, imperante, sovrana e, in quanto tale, legalmente riconosciuta. Come osserverà già a suo tempo Tocqueville, «Parigi, divenuta il precettore unico della Francia, finiva per imprimere a tutte le intelligenze una medesima forma e un medesimo orientamento... Tutti gli uomini situati al di sopra del popolo si rassomigliavano; avevano le stesse idee, le stesse abitudini, gli stessi gusti, si davano agli stessi piaceri, leggevano gli stessi libri, parlavano la stessa lingua».
Si tende spesso a fare la storia della letteratura attraverso i grandi libri, ma al di sotto, o al di sopra, fate voi, dei classici che sfidano i tempi e le mode c’è una pletora di opere che il tempo e le mode si incaricheranno di cancellare, ma che allora, in quel preciso istante, rispecchiano un clima e un’epoca. All’inizio del Novecento, Daniel Mornet, lo studioso delle origini intellettuali della Rivoluzione francese, censendo ventimila libri di biblioteche private vendute all’asta vi aveva trovato una sola copia del Contratto sociale di Rousseau! Certo, i cataloghi per le aste venivano preventivamente sottoposti a censura; certo, spesso e volentieri gli eredi venuti in possesso di quelle biblioteche di famiglia ne avevano espunto dalla vendita i titoli più scandalosi e proibiti, affinché la memoria del caro estinto non venisse macchiata... Eppure, più che i Rousseau in senso stretto, erano i «Rousseau des ruisseaux», quelli dei rigagnoli, libertini e iconoclasti che allora avevano tenuto banco, su cui si era formato lo spirito pubblico destinato a esplodere e a travolgere tutto con la presa della Bastiglia. Dove, va ricordato, c’era un pugno, letteralmente, di detenuti, e in quel pugno un paio di malati di mente...
Il più celebre «Rousseau du ruisseau» si chiamava Restif de la Bretonne, per il quale infatti era stata coniata l’espressione, ma un po’ tutti i bestselleristi proibiti dell’epoca, Mercier, Mirabeau, per fare solo due nomi, vi potevano facilmente essere ricondotti: era gente che attraverso la penna cercava di ritagliarsi quel ruolo pubblico che la rigida struttura sociale dell’Ancien Régime gli vietava. Fare parte, in senso lato, dei savants, dei sapienti, di una Repubblica delle lettere che si imponeva sulla monarchia dell’aristocrazia era il loro vizio segreto. Nobili espulsi dalla loro classe, avvocati e medici senza clienti, scienziati che non avevano mai scoperto niente, borghesi in cerca di una nuova identità si armavano di penna per cercare con essa di scalare il successo, arrivare alla fama, ottenere un diverso e duraturo prestigio. Picconavano ciò che c’era non in vista di un mondo nuovo, ma più semplicemente per scavarsi la loro piccola o grande nicchia di potere.
Si dirà che la delegittimazione della classe dominante è un classico della letteratura scandalistica fin dal Rinascimento, senza per questo essere mai stata considerata una seria minaccia per il sistema. Ma, come nota Robert Darnton nel suo magistrale Libri proibiti (il Saggiatore, pagg. 463, euro 35, prefazione di Daria Galateria, traduzione di Vittorio Beonio Brocchieri) è proprio nel Settecento che avviene «il significativo passaggio dalla diffamazione dei singoli individui alla diffamazione di un intero sistema politico». Da una libellistica in forma di opinione si passa ai libelles in forma di libri, alla capillarità della loro diffusione, alla più mirata articolazione di maldicenze di natura sessuale e di critiche di natura storico-politica. Ciò che ancora per tutto il Seicento era una critica alla «tirannia» si trasforma nel secolo successivo in una critica al «dispotismo», ovvero alla degenerazione del sistema politico: «Le denunce delle dissolutezze dei sovrani e della malvagità delle loro amanti finì per sgretolare quell’aura di sacralità che legittimava la monarchia agli occhi dei sudditi. Anche se la gente finiva per dimenticare i singoli episodi, l’idea di una generale corruzione della monarchia si faceva strada e finì per trasformarsi in un attacco in grande stile contro l’ordine costituito». Come scriveranno molti libellistes dell’epoca, nelle mani della du Barry, la volgare amante in carica del pressoché impotente Luigi XV, «lo scettro appariva flaccido come il pene del re».
Che l’attacco all’ordine costituito dovesse e potesse significare una volontà rivoluzionaria, Darnton giustamente lo nega: «In verità, nessuno in Francia presagì o auspicò l’avvento della rivoluzione fino al 1787. Le origini ideologiche della Rivoluzione francese devono essere cercate nel processo di delegittimazione dell’Ancien Régime, piuttosto che nell’annuncio di una nuova era. E i libelles furono lo strumento più efficace di tale opera di delegittimazione».
In quest’ottica, anche i termini «libertino», «libertinaggio» et cetera, va storicamente rivisitato, perché altrimenti si cade nell’equivoco di farne semplicemente un fascio di lubricità, una sottocultura scandalistica dove monache libidinose e frati ubriaconi in perenne erezione si davano allegramente la mano frammezzo a aristocratici debosciati, prostitute d’alto bordo o di piccolo cabotaggio, piccole Bovary ante litteram in fregola per astinenza sessuale. Come nota Daria Galateria, «a inizio Settecento la parola libertino aveva cambiato senso e natura. Nel mondo barocco, designava il libero pensatore, ateo e agnostico, lo spirito forte che anche in punto di morte rifiutava i sacramenti o il pentimento. Dedito semmai (ma non necessariamente) anche alla dissipazione morale». In seguito, «prende una sola dimensione, suggerisce libertà sessuale e ricerca del piacere». Nella voce «Voluttuoso» dell’Enciclopedia, Diderot difenderà così il libertino: «Quelli che inseguono non so quali dottrine austere e ci perseguitano sulla sensibilità di organi che abbiamo ricevuto dalla natura – che ha voluto che la conservazione della specie fosse anche una fonte di piacere – sono degli ipocondriaci da rinchiudere in manicomio». Il sesso diviene una sorta di arma impropria, con cui colpire «la corruzione dei due stati, chiesa e aristocrazia», il moralistico vezzo proprio di un’età di decadenza per cui ciò che nella propria pratica quotidiana viene derubricato alla voce libertà e piacere, assume in quella del potere pubblico i tratti della colpevolezza da condannare con virtuosa indignazione...
Il resto lo fanno i philosophes poveri e ambiziosi che prendono il posto di quelli che a metà Settecento venivano intanto a morire, la bohème letteraria affamata di denaro come di riscossa sociale. Non a caso il libro di Darnton ha per sottotitolo «Pornografia, satira e utopia all’origine della Rivoluzione francese». Morale sessuale, fede religiosa, rapporti fra le classi sociali, tutto viene rimesso in discussione da una letteratura clandestina di cui i veri bestseller del Settecento francese fanno parte. Letti avidamente dal popolo come dall’aristocrazia, sono quel flusso sotterraneo che, portato in superficie, sommergerà la Francia e darà inizio alla modernità.