Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2019
Usa-Cina, la guerra dei dazi continua tra manipolazioni e taglio dei tassi
Donald Trump indossa l’elmetto nella guerra commerciale con la Cina: davanti alla risposta di Pechino alla sua ultima bordata di dazi, una replica che ha lasciato scivolare lo yuan e messo al bando l’import di beni agricoli americani da parte di aziende statali, il presidente degli Stati Uniti alza il tiro. Accusa il governo della potenza asiatica di «grandi violazioni e manipolazione valutaria». E chiama ad arruolarsi nella sua crociata la Federal Reserve: «Stai ascoltando, Fed?» ha twittato, rilanciando le pressioni per un rapido e drastico taglio dei tassi d’interesse statunitensi che, tra gli effetti, avrebbe l’indebolimento del dollaro e una maggior competitività del Made in Usa.
La dinamica, agli occhi degli operatori economici e finanziari americani, si è appena fatta più difficile, forse molto più difficile. Oggi è diventata una chiara partita – o battaglia – a tre. Tra Trump, Pechino e la Fed. Jerome Powell e gli altri governatori della Banca centrale potrebbero finire al centro d’una escalation di pressioni per allentare il costo del denaro da parte di un’amministrazione a caccia di nuovi arsenali – assicurando cioè sostegno economico nelle retrovie e armando le sfide valutarie all’estero – per continuare a condurre la campagna contro Pechino. Powell ha ammesso che proprio le tensioni sul commercio sono tra la ragioni del primo, modesto taglio nei tassi effettuato in dieci anni dalla Fed la scorsa settimana. Forse però conscio della posta politica in gioco – l’indipendenza della Fed da “manipolazioni” strettamente politiche – ha rifiutato di promettere lunghe fasi di stimolo.
L’equilibrio instabile tra Washington e Pechino minaccia uno stato di guerra permanente e protratta, a volte strisciante e a volte esplosiva, capace di assediare l’economia globale oltre ai mercati americani non sempre miglior barometro della realtà visti i loro valori massimi, secondo qualcuno da perfezione e quindi vulnerabili. I rischi entrano tuttavia ormai nei più accreditati modelli previsionali: Morgan Stanley ha predetto ieri che se la spirale di dazi e contro-dazi resterà in vigore per quattro o sei mesi, entro nove mesi il mondo sarà in recessione. «L’esito più probabile nel prossimo futuro sono continue tensioni irrisolte che avranno un impatto materiale» sull’economia, dall’interscambio alle catene produttive e agli investimenti, denuncia Mickey Levy di Berenberg.
Trump ha trovato numerosi alleati politici domestici nella sua crociata, repubblicani acquiescenti nonostante trascorsi da libero commercio e democratici tradizionalmente più sensibili a un protezionismo pro-lavoratori. Un’impennata nei costi della guerra potrebbe cambiare gli umori. I sintomi di ripercussioni cominciano ad aumentare certo per Pechino ma anche per Washington, nonostante una crescita del Pil attorno al 2% e un’occupazione forte di 164mila nuovi impieghi a luglio. Il settore manifatturiero Usa, gravato dal commercio, ha frenato al passo inferiore in tre anni e così anche i servizi, stando agli indici della fiducia.
Ma il presidente ha puntato le sue migliori carte politiche ed elettorali proprio sul nazionalismo economico delle crociate sul commercio, oltre che sociale della lotta all’immigrazione, e non sarà facile operare una de-escalation. La strategia americana, temono gli osservatori, risente oltretutto da sempre di una apparente scarsa chiarezza di obiettivi al di là di ampie concessioni, una sorte di resa, da parte della Cina. Sono trapelati segni di confusione interna sul varo dei più recenti dazi risolti solo da Trump con un diktat pro-sovrattasse.
«Non siamo entrati in questo conflitto con la Cina con un piano su come uscirne», ha commentato Philip Levy, ex consigliere di George W. Bush. «L’idea sembrava essere: li minacciamo, loro cedono e tutti sono soddisfatti. Ma che cosa accade se non si arrendono?» ha indicato citando la capacità di Pechino di tollerare disagi e invocare «lunghe marce». L’amministrazione, nelle ultime ore, ha ovviato a qualunque dubbio interno, tattico o strategico, moltiplicando gli strali verso la Cina. Il consigliere commerciale della Casa Bianca Peter Navarro aveva affermato fin dal weekend che Pechino deve rinunciare a «sette peccati capitali», che comprendono anzitutto la «manipolazione della divisa», sussidi a imprese e trasferimenti forzati di tecnologia.