la Repubblica, 6 agosto 2019
I respiriani, ossia quelli che si nutrono solo d’aria
Sono 22 giorni che non mangio e bevo solo acqua, un quarto di litro al giorno. Ma io sono al terzo livello, il quarto prevede che non si provi più alcun bisogno di ingerire acqua o cibo». Lo ha detto Nicolas Pilartz, profeta del respirianesimo, intervistato nei giorni scorsi da Lara Tomasetta per TPI News. Il guru dell’alimentazione pranica, che vive nella campagna di Fabriano nelle Marche, in una yurta, la tenda dei nomadi mongoli, è il punto di riferimento dei respiriani italiani, la più estrema delle tribù alimentari. Che conta adepti in tutto il mondo, fra cui celebrità come l’attrice Michelle Pfeiffer e Valeria Lukyanova, la donna che si è trasformata in Barbie a forza di chirurgia plastica. Secondo loro l’organismo viene inesorabilmente avvelenato dal cibo. L’unico modo per salvarsi consisterebbe nel purificare le cellule alimentandole unicamente con l’energia spirituale che circola per l’universo. Quel che suol dirsi vivere d’aria. Proprio come fanno da sempre gli eremiti cristiani e gli asceti orientali, che tentano di andare al di là dei limiti del corpo, associando alla preghiera e alla meditazione un’astinenza sempre più dura, fino ad arrivare alla rinuncia a ogni cibo.
C’è un minimo comun denominatore che lega l’ascetismo di un tempo all’estremismo dietetico contemporaneo ed è l’aspirazione ad un controllo assoluto del corpo e della mente, attraverso il cibo, o meglio la sua negazione. La differenza è che una volta questo vivere di stenti era una pratica devozionale, oggi è una misura salutista. Allora riguardava l’interiorità e non le interiora, l’anima e non le animelle. Ma, al di là delle motivazioni, gli argomenti e i comportamenti si somigliano in maniera sorprendente. Certo è che da che mondo è mondo l’anatomia del corpo e quella dello spirito si modellano l’una sull’altra. E non diversamente da quel che dicono oggi i respiriani, anche i Padri della Chiesa pensavano che il digiuno prolungato riuscisse a trasformare la natura stessa della fisiologia umana, rendendo l’essere incorruttibile. Secondo Atanasio il Grande, vescovo di Alessandria d’Egitto tra il secondo e il terzo secolo, stare a pancia vuota libera il corpo dalle sostanze contaminanti, ma al tempo stesso scaccia i demoni, espelle i cattivi pensieri e purifica il cuore. E se si toglie il riferimento all’Altissimo, non siamo lontani da quella sorta di religione del metabolismo, da quella ideologia del drenaggio, assurte a catalogo laico del fitness contemporaneo. Nel Libro dei gradi, un testo monastico di area siriana del quarto secolo, è scritto a chiare lettere che il digiuno depura dalle scorie della corporeità e libera la parte spirituale dell’essere. Testualmente lo rende “filtrato”. Una diuresi dell’anima, non lontana, nei termini se non nelle intenzioni, dal ricorso dilagante a prodotti depurativi che oggi trasforma farmacie ed erboristerie in purgatori secolarizzati, in luoghi di remissione dei peccati di gola. E fa del business delle tisane e delle acque funzionali un florido mercato delle indulgenze. Come dire che il drenaggio del corpo elimina le tossine dell’anima e rende puliti dentro, plin plin, più adatti all’incontro con Dio.
Insomma, un filo rosso unisce i rigori di ieri alle punizioni di oggi, ed è l’idea che diminuire il peso del cibo compensa il sovrappeso dei peccati. Una bilancia metà fisica, ma soprattutto metafisica, che getta su un piatto la carne e sull’altro lo spirito. Sant’Agostino dice che nel momento stesso in cui il Signore creò il Paradiso, istituì la legge del digiuno perché sapeva bene che il peccato sarebbe entrato nel mondo usando come cavallo di Troia il cibo. Che ha il male in sé, perché è legato a doppio filo al desiderio e alla tentazione. Così se il serpente prende per la gola, il Creatore prescrive il digiuno. Ecco perché anche oggi agli occhi di tanti un’amatriciana pesa sulla coscienza, mentre un’insalata scondita la lava.
In realtà, a essere oggetto degli strali dei penitenti d’antan e dei rinuncianti del nostro tempo, non è tanto e solo il cibo in sé, quanto il circolo vizioso messo in moto dal piacere della tavola. Non a caso i bacchettonissimi Padri della Chiesa fanno spesso della gastronomia l’oggetto dei loro anatemi. Tertulliano spara a zero contro i golosi, schiavi dei loro sfizi e sempre intenti a strafogarsi di manicaretti. Ma il colpo mortale il grande moralista lo riserva ai cuochi, i masterchef di allora, che sono i supremi sacerdoti delle riprovevoli liturgie del ventre. E Clemente Alessandrino, un po’ moralista un po’ nutrizionista, condanna l’eccesso di cibi elaborati e di ricette eccessivamente ricercate che fanno male allo stomaco e trascinano lo spirito in un gorgo di pericolose voluttà. E anche lui fa un ritratto diabolico di questi stellati ante litteram, che istigano al peccato e bruciano la loro vita, nonché quella dei loro avventori, tra padelle sfrigolanti e piatti troppo buoni per essere sani. E snaturano perfino il pane quotidiano, perché lo raffinano troppo buttando via la parte più nutriente, per trasformarlo in un biasimevole piacere. Le parole del teologo di Alessandria anticipano la recente demonizzazione delle bianchissime farine 00 e la beatificazione del pane integrale, che oggi abbiamo elevato a emblema supremo di salute e salvezza, facendo cortocircuitare fibra alimentare e fibra morale. E così noi, da pauperisti opulenti, facciamo nostro il comandamento di Clemente e cerchiamo di redimerci, pagando cibi da poveri a prezzi da ricchi.