la Repubblica, 6 agosto 2019
La Germania è sull’orlo della crisi
A fine luglio Mario Draghi era stato chiaro. Le due grandi industrie europee, Germania e Italia, stanno subendo uno «shock idiosincratico» e avrebbero bisogno di una boccata di ossigeno, di uno stimolo. Ma poche ore dopo il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz aveva già liquidato il suo allarme con una scrollata di spalle. «Non è necessario, né sarebbe saggio, comportarsi come se fossimo in crisi. Non lo siamo». E questo nonostante l’intera curva dei rendimenti dei titoli di Stato tedeschi sia sotto zero: se la Germania si indebitasse, gli interessi dei titoli a qualsiasi scadenza li pagherebbero i creditori. Insomma, non ci sarebbe momento più propizio per varare un generoso programma economico per tirare fuori la Germania dalle secche in cui si sta insabbiando. E invece.
Secondo il socialdemocratico Scholz, una volta risolte le crisi “man-made”, “fatte dall’uomo”, tutto andrà a posto. Peccato che non ci sia il benché minimo segnale che quelle crisi “man-made” possano risolversi a breve. Anzi. Appena insediato, Boris Johnson ha puntato il timone dritto su un’uscita disordinata del Regno Unito dall’Ue. Tra Trump e Cina, poi, il barometro segna tempesta. E, in aggiunta, per la cancelliera Angela Merkel incombe un autunno caldo anche dal punto di vista politico.
Anche nel 2008 il fallimento di Lehman Brothers fu catalogato come un «problema amercicano» dal predecessore e compagno di partito di Scholz, Peer Steinbrueck. L’allora ministro delle Finanze disse che i pacchetti congiunturali erano inutili. Sappiamo com’è andata: l’economia crollò e a partire da novembre, il governo Merkel fu costretto a varare non uno, bensì due piani di stimolo. Nel 2009 il Pil tedesco si inabissò comunque di cinque punti.
Certo, è ancora azzardato fare paragoni con la Grande crisi. Ed è presto anche per previsioni affidabili sull’autunno, anche se è certo che il campione globale delle esportazioni sentirebbe più di qualsiasi altro partner europeo il peso di un’inasprirsi dei protezionismi trumpiani e, soprattutto, di un’uscita “dura” del Regno Unito dall’Unione. Ma anche di una recessione dell’Italia. Per la Camera di commercio britannica in Germania, la hard Brexit «va evitata a tutti i costi» perché costerebbe a Berlino «un punto di Pil».
A giudicare dagli ultimi indicatori, gli imprenditori cominciano già a tirare il freno a mano. La Germania ha registrato solo mille occupati in più a giugno, rispetto al mese precedente: la media di giugno, negli ultimi cinque anni, era sempre stata di 44 mila lavoratori in più. L’istituto di statistica Destatis parla di un «indebolimento» della domanda: una tendenza confermata dall’istituto economico Ifo. I datori di lavoro, scrive nel suo rapporto più recente, «pianificano meno assunzioni». Il boom occupazionale degli ultimi anni «è passato». E il dibattito è già partito: Ingo Kramer, presidente dell’associazione degli industriali BDA ha chiesto al governo di varare sostegni per la riduzione dell’orario di lavoro annunciata ormai da molte aziende. L’ultima volta, durante la Grande crisi, si sono dimostrati «utili», ha argomentato.
Ma nei giorni scorsi è stato sempre l’Ifo a registrare anche un umore più generale incupito. In particolare nel settore manifatturiero, il mood «è in caduta libera». Un crollo peggiore era stato registrato l’ultima volta nel 2009, in piena crisi finanziaria. E un miglioramento «non è in vista». Inoltre, per la prima volta dalla recessione di dieci anni fa, sono più numerose le aziende che si aspettano esportazioni in calo di quelle che sperano in una crescita dell’export, nei prossimi in mesi. Un fattore influenzato anche dalla difficile situazione economica in Italia.
Oltretutto, il rallentamento dei principali indicatori avviene in vista di mesi difficilissimi anche dal punto di vista politico. Angela Merkel affronta tre elezioni regionali a Est, tra settembre e ottobre, che potrebbero provocare il terremoto più grave del suo quarto governo. In tutti i sondaggi della Turingia, del Brandeburgo e della Sassonia la destra nazionalista Afd è ormai il primo partito o, per un soffio, il secondo. Tanto che da mesi si rincorrono voci sulla possibile rottura di un tabù: un’alleanza tra l’Afd e la Cdu, voluta da moltissimi parlamentari regionali, ma tassativamente esclusa dai vertici, e in particolare da Merkel e Annegret Kramp-Karrenbauer. In più, la Spd rischia un tracollo che potrebbe indurla a dicembre al più tardi a staccare la spina alla Grande coalizione, costringendo Merkel a un inedito assoluto, per la Repubblica federale: un governo di minoranza. Per un po’, i tempi della stabile e inaffondabile Germania potrebbero essere tramontati.