Corriere della Sera, 6 agosto 2019
L’amicizia tra Russia e Cina. Conseguenze
Con la fine dei vecchi schieramenti internazionali e l’indebolimento delle antiche alleanze è emersa in pieno la fragilità dell’Italia. Di un Paese facilmente percepito all’esterno come privo dell’indiscutibile autonomia e anche di quel sentimento della propria indipendenza che solo l’esistenza di un’autentica classe dirigente rappresenta e garantisce davvero. Evidentemente però la classe dirigente italiana, a cominciare da quella politica, è lungi dal dare questa impressione (o forse è l’Italia intera che in un certo senso non la dà?), ed ecco allora in questi ultimi tempi avvicinarsi dalle nostre parti russi, ungheresi, cinesi, ognuno per il proprio tornaconto, ognuno con le proprie mire.
Com’era prevedibile l’opinione pubblica italiana non sta reagendo a questi tentativi in modo univoco. Perlopiù reagisce ancora e sempre, infatti, in base al modello tipico della partigianeria nostrana dei due pesi e due misure. Ma stavolta nell’applicazione di questo modello essa è aiutata da un importante elemento nuovo: la grande diversità delle strategie messe in campo dai vari Paesi desiderosi di ottenere o rafforzare la loro «amicizia» con l’Italia o con alcuni suoi esponenti. Le quali strategie sono all’incirca di due tipi distinti: quella adottata per questa occasione dai russi da un lato, e quella scelta dai cinesi dall’altro.
Al fine di guadagnarsi sostenitori in casa nostra i russi, significativamente, hanno ritenuto inutile ricorrere nella Penisola ai sofisticati metodi d’intervento elettronico come quelli adoperati per le elezioni Usa, ripiegando invece sul molto più tradizionale esborso di quattrini. In piena armonia con il loro glorioso passato sovietico e i metodi di allora, hanno proceduto all’elargizione-trasferimento di rubli. Al massimo, a quel che sembra, impiegando la solita finta intermediazione commerciale, dunque con l’inevitabile intromissione di un sottobosco di mezze tacche, di bru bru i quali – non esistendo più i marmorei Compagno G di cui poteva disporre il Pci – aprono puntualmente la strada a inevitabili catastrofi mediatico-giudiziarie. Quanto ai destinatari delle erogazioni in questione, i russi hanno confermato una certa loro mancanza di fantasia. Secondo tutti gli indizi, infatti, il beneficato di Mosca è stato il più prevedibile, cioè la Lega (quindi con Salvini molto probabilmente a conoscenza d’ogni cosa); il più prevedibile in quanto da tempo in piena sintonia politica con la Russia, favorevole in ogni occasione ai suoi obiettivi, nonché simpatizzante esplicita di Putin e del suo stile di governo. Tutte cose che a giudizio di molti (compreso chi scrive) solo un bel gruzzolo di soldi può giustificare. Da qui lo sputtanamento inevitabile della Lega medesima e del suo leader «al soldo dello straniero».
Che differenza con la Cina! Anche la Cina ha da tempo messo l’Italia nel mirino: a quel che si capisce con obiettivi anche più ambiziosi, assai più ambiziosi, di quelli di Mosca. Ma essendo ben più ricca, disponendo di un’enorme massa di consumatori, avendo un’economia pienamente inserita a tutti i livelli nel sistema capitalistico mondiale, può fare a meno di comprare la propria influenza infilando mazzette di yuan nelle ventiquattrore di qualche italiano. Pechino invece offre a tutti principalmente di fare ottimi affari e un mucchio di quattrini. Da un lato, infatti, con le sue centinaia di milioni di cittadini neo-benestanti essa costituisce un mercato vastissimo e appetitoso per qualunque azienda desideri vendere qualcosa; dall’altro, grazie alle sue centinaia di milioni di operai sottopagati e privi di qualunque tutela sindacale, non solo importare dalla Cina significa importare a prezzi assai vantaggiosi, ma egualmente vantaggiosissime sono le condizioni che essa può offrire a un’azienda occidentale che voglia trasferire lì la propria produzione. Non è finita. La Cina, infatti, si presenta come il Paese di Bengodi pure per chi non è interessato a vendere, a comprare e fabbricare, essendo pratico esclusivamente del mondo delle idee e dei libri. E infatti a intellettuali noti e meno noti, ad accademici affermati, a ex politici trasformatisi in conferenzieri, ad artisti, a scrittori così come a scienziati, gli intelligenti dirigenti di Pechino sono da anni larghissimi di inviti, di occasioni di viaggi e di visita, con un’accoglienza sempre attentissima e senza badare a spese. Accompagnata spesso da ricchi cachet.
Il risultato è che intrattenere rapporti con la Repubblica popolare cinese e i suoi gerarchi, commerciare con essa, manifestarle i più caldi sentimenti di ammirazione e di amicizia, dare vita a comuni iniziative d’ogni tipo, anche culturali, tutto ciò è da tutti considerato assolutamente giusto e appropriato, consono a un sano principio di collaborazione tra i popoli. In una parola, democraticamente irreprensibile. E di conseguenza, ad esempio, si può decidere tutti d’accordo di aprire l’economia italiana a investimenti cinesi senza alcun controllo, di far comprare alla Cina o darle in appalto porti o pezzi di porti, di farle costruire quello che vuole, d’inserire la Penisola nella sua rete planetaria d’influenza dal grazioso nome di «via della seta».
Per apprezzare nella giusta misura l’entità del successo di una tale politica di penetrazione e d’influenza basta immaginare per un attimo che cosa succederebbe se, invece che dalla Cina, essa fosse attuata, mettiamo, dall’Ungheria. Eppure l’Ungheria di Orbán è un Paese incommensurabilmente più libero della Cina di Xi Jinping. È un Paese dove i diritti umani sono in larga parte rispettati laddove in Cina essi sono altrettanto sistematicamente violati, laddove in Cina, com’è universalmente noto, il gulag prolifera, non viene tollerato il minimo dissenso, le esecuzioni capitali si contano a migliaia e – non mi sembra un dettaglio proprio insignificante – si pratica una vera e propria politica genocidiaria e di persecuzione religiosa nei confronti degli uiguri musulmani e dei tibetani buddisti. Eppure a dispetto di tutto ciò, in barba a ogni dato di fatto, agli occhi di una parte importante dell’opinione pubblica italiana (ma non solo, non solo), intrattenere rapporti con l’Ungheria di Orbán, non parliamo con Orbán in persona, è considerato un fatto politicamente ambiguo, il sintomo di per sé di uno spirito autoritario, il prodromo possibile di chissà quali propositi liberticidi. Con la Cina, al contrario, nessun problema.
Conclusione? Oggi per acquisire in Occidente amicizie che contano e influenza senza colpo ferire non basta disporre di molte risorse. È necessario essere capaci di agire su un vasto fronte, essere disposti a largheggiare in molte direzioni. Per comprarne uno bisogna non darlo a vedere e soddisfarne almeno cento.