ItaliaOggi, 6 agosto 2019
Matteo Salvini trionfa dalla spiaggia ma fa il pasticcione a Bruxelles
A Matteo Salvini potrebbe essere ricordata la battuta di uno storico americano che diceva che se Benito Mussolini avesse visto l’elenco telefonico di New York (che nel 1940 aveva 5.660 pagine a fronte delle 96 di quello di Roma) non avrebbe mai dichiarato guerra agli Stati Uniti. Anche se è strano per uno che, come lui, è stato più volte europarlamentare, Salvini sottovaluta fortemente i vincoli e le possibili reazioni del quadro europeo, non solo l’istituzione in sé e per sé ma l’intera e inestricabile galassia. Istituzionale e di interesse, che ruota attorno a essa.Per fortuna che alcuni argomenti che Salvini ha sventolato nella sua campagna elettorale europea, come, ad esempio, l’uscita dell’Italia dall’euro, li ha poi lasciati perdere strada, rendendosi conto che le sue minacce erano di panna montata mentre le prevedibili reazioni erano delle armi perfettamente funzionanti. Salvini ha attenuato i suoi attacchi fin quasi a spegnerli anche se, di tanto in tanto, tira fuori dalla sua sacca, le sagome sempre meno credibili di alcuni sui parlamentari noti per voler far saltare la Ue, ammesso che ci riescano ed essendo certo che l’Italia ne uscirebbe disintegrata.
La politica estera, in genere (ma, in particolare, per un paese come l’Italia, che non è una grande potenza), è da sempre stata complicata. Inoltre, contrariamente alla politica interna (dove valgono gli slogan roboanti, le accuse alla catch, gli attacchi formalmente sanguinosi subito ricambiate ma anche presto dimenticati) la politica estera esige una visione globale e complessa, da usare contro avversari o a favore di amici che spesso cambiano rapidamente atteggiamento e quindi anche ruolo, senza avvisare nessuno.
La politica estera non è un gioco come il biliardo dove hai a che fare con delle bocce ferme ma come il calcio dove la palla, oltre a essere sempre in movimento, non tiene assolutamente conto dei complicati assetti studiati a tavolino che forniscono suggerimento, non soluzioni. La politica estera quindi va continuamente decifrata per poi poter subito reagire con cognizione di causa. Questa strategia (che pure affonda le sue radici nel pensiero di Nicolò Macchiavelli) non è quasi mai stata applicata in Italia ma, su questo piano, le cose sono visibilmente peggiorate in quest’ultimo ventennio da parte, a pari livello, di governi di centrodestra o di centrosinistra, tutti incentrati come sono sul loro ombelico e sopraffatti dallo loro visione inguaribilmente provinciale. Del resto, da leader politici che non conoscono le lingue straniere e che, in qualche caso, parlano un italiano penosamente tradotto dal dialetto locale (non lo dico a caso, o per caricaturare la realtà ma avendo ben presenti alcuni leader nostrani) che sono vuoi attenderti che facciano a livello internazionale?
Per illustrare gli abbagli che si possono prendere quando si affrontano realtà complesse e continuamente cangianti, con degli schemi rigidi e delle idee ossificate, basti tener presente come la Lega abbia costruito la sua presenza in Europa sulla base della solidarietà-alleanza con i Paesi sovranisti dell’Est Europa e con il movimento di Marine Le Pen (che è un caso a parte).
La Lega infatti si era subito alleata con i quattro paesi di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria; un complesso, per rendere l’idea, di 64 milioni di abitanti) commettendo un primo e grave errore. Considerandoli cioè come se essi fossero, non solo paesi omogenei ma anche, in ogni caso, ferocemente e solidalmente alternativi rispetto al potere di Bruxelles.
I fatti, strada facendo, si sono dimostrati più complessi. L’Ungheria, che veniva indebitamente descritta, soprattutto da Macron, ma anche dai media italiani, come un paese razzista guidato da un premier nazista (Victor Orbán che è al potere dal 2010 a seguito di libere elezioni sulle quali nessuno ha mai avuto nulla da dire) era sicuramente destinato a rimanere isolato nel nuovo Parlamento europeo dato che il Partito popolare europeo, Ppe, il partito della Merkel, per intenderci, non l’avrebbe mai accettato nelle sue file.
Di fatto, invece, visto che alla matematica (dei seggi) in democrazia non si comanda (essendo la democrazia, una forma di governo che vive di maggioranze) Orbán è stato, non solo accettato dalla maggioranza europarlamentare del Ppe, ma è stato anche onorato da quest’ultima (mentre Macron e i media italiani stavano zitti). Lo stesso è capitato alla Polonia che è stata accolta alla grande nella maggioranza che guiderà l’europarlamento. Non si deve dimenticare che la Polonia, con i suoi 39 milioni di abitanti, ha molto più della metà dell’intera popolazione dei Paesi di Visegrad.
La Lega invece, che era partita con la spada nel pugno, è finita all’angolo, in Europa, completamente isolata, essendo stata confinata nella zona dell’irrilevanza a livello continentale dalla quale adesso dovrebbe cercare di uscire nell’interesse del Paese che rappresenta. Operazione, questa, che è molto più congeniale a Conte, se fosse lasciato operare, come ha dimostrato salvando la Von der Leyen con i voti determinanti dei pentastellati che hanno impedito di restituirla tutta ammaccata a Berlino con una Merkel che molto probabilmente non sarebbe stata in grado di neutralizzare questo smacco a livello di alleanza politica tedesca.
Adesso la Lega che, in quanto partito italiano che ha preso più voti nelle elezioni europee, avrebbe il diritto di indicare il suo commissario alla presidenza della Commissione europea, Von der Leyen. Invece Salvini, anziché togliere dal suo capello un nome pregiato della sua scuderia politica, in grado di operare al massimo livello in Europa, anche per cucire le relazioni sbrindellate, fa lo gnorri: non indica nessun nome, ne ventila alcuni (mi auguro non credendoci) che sarebbero una rovinosa provocazione, pur avendo a disposizione (pochi) candidabili di assoluto valore. Non è con questi giochetti a rubamazzetto (che era in gioco che si faceva negli oratori; e adesso, neppure in quelli) che ci si ricava un spazio in Europa adeguato al potere e alle necessità dell’Italia.