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 2019  agosto 06 Martedì calendario

La biblioteca più antica del mondo è quella Capitolare di Verona. Intervista a don Bruno Fasani

Quando era alla guida di Verona Fedele, il compianto direttore del Gazzettino, Giorgio Lago, suo amico ed estimatore, lo definì «la fiamma ossidrica del giornalismo cattolico». La Repubblica lo gratificò di un soprannome non usurpato: Furia. Si considera «un sessantottino dell’anima», il che giustifica l’irruenza di fondo. Che lui, don Bruno Fasani, 71 anni, ora monsignore e canonico della Cattedrale, spiega così: «Serve coraggio per dire parole scomode e impopolari che raggiungano l’uomo contemporaneo, stordito dall’effimero, prigioniero del relativo».Nel sentirlo predicare dal pulpito preferito, la tv, si capisce subito che il sesso degli angeli non è materia sua. Preferisce misurarsi con i temi concreti della quotidianità: la politica, la bioetica, la scuola, la povertà, le tasse, la corruzione, l’immigrazione. Una volta persino il canone Rai, e l’intemerata per poco non gli costò l’estromissione dalla tv di Stato vita natural durante, alla stregua di Enzo Biagi, Daniele Luttazzi e Michele Santoro, con il quale peraltro litigò per via di una puntata di Sciuscià ostile a Verona.
Giornalista professionista dal 1992, brandiva la penna come una spada e provocava parecchi sconquassi. Fra questi va annoverata un’inchiesta della magistratura sugli intrecci affaristici della politica locale con il giornalismo e la bastonatura del «professore» uruguaiano Luis Ignacio Marsiglia, ebreo privo di titoli per insegnare al liceo classico Scipione Maffei, protagonista di un’aggressione antisemita inventata per non perdere il posto da docente di religione, al quale riservò un trattamento tanto rude da indurre l’allora senatore ulivista Luigi Viviani a schierarsi dalla parte del falsario. Fino al litigio in diretta televisiva con il vescovo Giuseppe Zenti, che gli revocò l’incarico di suo portavoce.
Era scritto nelle stelle che don Fasani creasse scompiglio nei mezzi d’informazione, così chiamati forse perché pubblicano solo mezze informazioni. Il monsignore editorialista incarna l’insegnamento di Graham Greene, romanziere protestante convertitosi al cattolicesimo: «Se non avete mai detto nulla che dispiaccia a qualcuno, è segno che non avete sempre detto la verità».
Appena ordinato prete, 45 anni fa, lo mandarono a fare il curato nella parrocchia di Borgo Venezia, dove sono nato. Lì lo conobbi e posso testimoniare che già allora parlava come un libro stampato. Mi pare pertanto del tutto naturale che ora sia il prefetto della Biblioteca Capitolare, la più antica esistente al mondo dopo la distruzione di quelle di Pergamo e Alessandria d’Egitto.
È sicuro di questo primato?
Arcisicuro. Basterebbe il codice di Ursicino, l’unico che riporti una data certa: 517 dopo Cristo. Ma fra i nostri 100 mila volumi abbiamo 1.300 codici che partono dall’anno 300. Fu possibile salvarli perché Verona non venne distrutta dai barbari, che qui piantarono casa.
Quali sono le altre più antiche?
La seconda è quella di Santa Caterina nel Sinai, che ha qualche centinaio di anni in meno. Seguono San Gallo in Svizzera e Salisburgo in Austria.
Come fecero i vostri tesori a scampare a due guerre mondiali e a un bombardamento aereo?
Durante la prima guerra furono trasferiti a Firenze. Durante la seconda in parte furono nascosti in Cattedrale e in parte nella soffitta della canonica di Erbezzo.
Perché si scelse una località di montagna?
Perché Wolfgang Hagemann, un ufficiale tedesco che nel 1933 era venuto in Capitolare a preparare la sua tesi di laurea e che poi era tornato in Italia come interprete del generale Erwin Rommel, consigliò al prefetto monsignor Giuseppe Turrini di portarli in Lessinia, sicuro che le truppe naziste in ritirata verso la Germania non sarebbero transitate da lì.
La Capitolare è solo la biblioteca più antica?
Fino al 1700 è stata anche la più importante al mondo. Oggi è pure la più povera. Non riceve alcun aiuto, né dallo Stato, né dalla Regione Veneto.
E dal Comune?
Unicamente un piccolo contributo annuale per renderla frequentabile dalle scolaresche. Mi spiace che il sindaco Federico Sboarina dai microfoni di Rtl 102.5 abbia indicato ai turisti tre motivi principali per visitare Verona, senza che fra questi figurasse la Capitolare.
Immagino che il primo fosse l’Arena.
No. Il primo secondo lui è la Casa di Giulietta, che presto disporrà di un accesso più comodo per arrivare a strusciare «la tetta», testuale, della statua di Nereo Costantini. Il secondo è la funicolare di Castel San Pietro. Il terzo sono le chiese oltre il fiume, quelle della «Verona Jerusalem minor».
Scipione Maffei, che in Capitolare mise le mani sull’unica copia delle «Istituzioni» di Gaio, si sarà rivoltato nel sarcofago.
Idem Francesco Petrarca, che nel secolo XIV vi rinvenne le Lettere di Cicerone. E penso anche Dante, che qui espose la famosa Quaestio de aqua et terra nel 1320.
Altri pezzi unici affidati alla sua custodia?
La prima copia del De Civitate Dei di sant’Agostino, trascritta con tutta probabilità intorno al 426 dopo Cristo, a Ippona, vivente l’autore. E ancora l’Evangeliarium purpureum, del V secolo, così chiamato perché fu imbibito nella porpora, che a quell’epoca costava l’equivalente di 20 mila euro l’etto. Quando lo aprì, san Bernardino da Siena scoppiò a piangere, perché dentro ci vide Dio. E poi l’Indovinello veronese, il più antico documento del volgare italiano.
Come arrivò fino a Verona?
Si tratta di un orazionale mozarabico, in uso nella Chiesa di Spagna nella seconda metà del VII secolo. Giunse nella nostra città dopo essere passato da Cagliari e da Pisa. L’ignoto copista scrive in cima al foglio: «Se pareba boves, alba pratàlia aràba et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba». A Verona si parlava così 1300 anni fa.
È meglio se lo traduce, questo «Indovinello».
L’interpretazione più accreditata è quella che si basa sui doppi sensi. «Parava davanti a sé i buoi», cioè le dita della mano, «arava i bianchi prati», ossia le pergamene, «teneva un bianco aratro», la penna d’oca, «e seminava la nera semente», l’inchiostro. In altre parole, l’amanuense descrive il proprio lavoro.
Non ha nostalgia della carta che esce dalle rotative?
Non ho mai smesso di occuparmene. Dirigo il giornale nazionale degli alpini, che tira 360 mila copie, e il settimanale diocesano di Carpi. E continuo a scrivere su quello di Verona, oltre ad altre collaborazioni di vario tipo.
Ha dichiarato: «La televisione è come un ladro che ti entra in casa senza lasciarti possibilità di difesa». Allora perché frequenta assiduamente i malviventi?
Per la stessa ragione per cui i poliziotti frequentano i luoghi della criminalità senza diventare criminali. E lo dico con molto rispetto per le tante brave persone che ci sono anche dentro la tv.
Da bambino si prefigurava nel ruolo di prete bibliotecario?
No, pensavo di essere destinato a fare il commerciante di materiali esplosivi per cave, come i miei fratelli. Anche se avevo uno zio, don Antonio Fasani, morto nel 1992, che fu archivista della Curia e in vent’anni di duro lavoro trascrisse le visite pastorali compiute fra il 1525 e il 1542 da Gian Matteo Giberti, vescovo di Verona originario di Palermo.
Perché «Repubblica» la ribattezzò Furia?
Avevo disturbato qualcuno con i miei interventi.
Qualcuno chi?
Politici.
Lei politicamente da che parte sta?
Sono un moderato, cresciuto in una famiglia di democristiani. Credo che noi preti siamo chiamati a diventare l’anima della politica, non a fare politica.
La politica ha perso l’anima, ammesso che mai ce l’abbia avuta?
La politica seria è la più grande forma di carità. Purtroppo nel tempo ha smarrito il suo obiettivo, tramutandosi per molti in occasione occupazionale. Svuotata d’idealità, si è consegnata all’emotività dell’opinione pubblica, che ha trasformato i cittadini in tifosi, testati quotidianamente attraverso i sondaggi.
Non trova paradossale che a propagandare il rifiuto del canone, prima che entrasse nella bolletta elettrica, fosse proprio lei che tutte le settimane compariva in Rai?
Premesso che io non ricevo un euro dalla Rai, questo semmai dà la misura della mia libertà interiore. Gli uomini si distinguono dagli opportunisti per il coraggio di scelte che possono avere una ricaduta pesante sul loro destino o sui loro interessi economici.
Con chi si consultò prima di quella sparata?
Con la mia coscienza. Era da tempo che mi chiedevo quale possibilità di controllo avesse il cittadino sui mezzi d’informazione. I giornali scegli di comprarli in edicola. Ma la tv ti entra in casa anche se non vuoi.
Enzo Biagi la paragonava alle condotte idriche: devono portare nelle abitazioni acqua pulita.
Le potenzialità sarebbero immense. Purtroppo le tubature spesso sono come quelle che abbiamo sotto terra. Fanno arrivare solo qualche goccia.
Quali programmi non perdona alla televisione?
Mi danno molto fastidio i conduttori che strumentalizzano i sentimenti, che costringono la gente a rinunciare al pudore in cambio della notorietà. La voglia di palcoscenico sta commutando la riservatezza in un disvalore e i telespettatori in guardoni.
Mi pare un problema che riguarda più che altro Canale 5, Barbara D’Urso e il Grande fratello.
Siamo all’apoteosi della banalizzazione dei rapporti umani. Questo spiega quanto sia fragile nei giovani la capacità di relazioni profonde. I ragazzi d’oggi si uniscono come somme algebriche più che come comunioni di anime. Il Grande fratello è la fotografia di una generazione che sta insieme senza conoscersi. Una fusione di solitudini.
Ma non è più immorale distribuire gettoni d’oro al primo che telefona o al concorrente che azzecca la parola giusta?
Questa è morale comparativa. La rifiuto. Allora ci si potrebbe sciacquare la coscienza sostenendo che tradire la moglie è meno grave dell’intascare tangenti. Un’immoralità non pareggia un’altra immoralità.
Sta divagando?
Tutt’altro. È immorale inoculare nella gente l’idea che la ricchezza si consegua senza fatica. Così come è immorale che i genitori si riducano a fungere da bancomat per i figli.
L’utente ha il telecomando dalla parte del manico: può spegnere.
La cultura che esce dalla televisione o dai social media è come l’acqua che esce dal serbatoio: raggiunge la società a prescindere dal fatto che la si guardi. Ma bisogna anche dire che la gente dimostra di avere grande attenzione per i programmi fatti bene. Storie semplici dove il bene è bene e il male è male.
Una sera Don Camillo e la sera dopo Marcellino pane e vino.
Si ricordi che vivo nel 2019 e soprattutto che ce la metto tutta per distinguere ciò che è banale da ciò che è intelligente. Mi piacciono anche i bravi comici. Penso a Checco Zalone. O al genio di Fiorello.
È legge del Signore che il sabato sera agli italiani tocchi il varietà con regolamentare balletto?
La domanda è mal posta: in che modo far svagare il cittadino che si mette in poltrona dopo una settimana di fatiche?
Come mai nei suoi giudizi è spesso così abrasivo?
Penso che chi fa informazione sia un cane che deve abbaiare. Un cane muto sarebbe una contraddizione di termini. Oppure sarebbe solo da compagnia. Ma il ruolo dei giornalisti è quello della profezia a favore dei cittadini.
Comunque sempre meglio che grossista di dinamite, seguendo la tradizione di famiglia.
Da piccolo mi sarebbe anche piaciuto diventare chirurgo.
Ma senti.
Ridare la vita a qualcuno con le proprie mani è come partecipare alla potenza creatrice di Dio. (Pausa). Non so, forse c’era di mezzo anche una vena di sadismo. (Ride).
È nato in una famiglia di medici o di macellai?
Di contadini. Aiutavo mio padre nei campi, portavo al pascolo le vacche. Sono nato alla Rocca, 8 chilometri a valle di Erbezzo.
La contrada prima di Cappella Fasani, un toponimo, un destino.
Un tempo il confine austroungarico passava a pochi chilometri da casa nostra. Mia madre, che ha vissuto fino a 103 anni, si ricordava di quanto fosse buono il riso che le davano i todeschi. In famiglia si mangiava solo polenta.
Quand’è che ha sentito la vocazione al sacerdozio?
La cerco ogni giorno, sperando di trovarla. Se poi mi chiede l’origine della scelta, questa è dipesa in gran parte dal mio insegnante di religione, don Rino Breoni, che mi ha fatto innamorare del Vangelo, dimostrandomi che non esiste messaggio ideale più grande.
Si è pentito di aver maltrattato il sedicente «professor» Marsiglia?
Non l’ho maltrattato. A essere maltrattata fu un’intera città. Se non fossi intervenuto, il docente sarebbe tornato al suo Paese lasciando il mondo nella convinzione che Verona è fascista e violenta.
Il senatore Luigi Viviani la accusò di «trattamento puntiglioso e formalistico, se non vendicativo», privo di «umanità e carità».
La prima forma di carità è la verità.
Ma Verona è razzista oppure no?
No. Abbiamo la più alta concentrazione di volontariato d’Italia. L’Est veronese, la Valpolicella e la Valpantena sono modelli d’integrazione. Certo, bisogna vigilare, perché c’è sempre qualcuno pronto a seminare discordia.
Come si spiega la discordia?
L’imperativo dello star bene ha sostituito l’idea di bene e di bene comune. E i più traditi sono i giovani, che per loro indole vorrebbero progettare la vita intorno a grandi ideali. Invece la società ne fa dei nani, trattandoli solo da consumatori.
Se il vescovo le chiedesse di lasciare i codici miniati e di tornare a fare il parroco in un paesino di montagna, come reagirebbe?
L’obbedienza va coniugata con il rispetto delle persone. Dovrebbe dimostrarmi che è per il mio bene.
Non lo sarebbe?
Potrebbe essere una grazia.
L’Arena