il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2019
Sagan, il fenomeno che ha reso il ciclismo divertente
M’impegno e m’impenno: cioè Peter Sagan, il più rivoluzionario dei corridori in bicicletta. Conquista tre titoli mondiali consecutivi: suggella i trionfi con l’impennata. Come Valentino Rossi, il centauro. Infatti, Vale è uno dei suoi idoli. Un giorno Peter l’ha confermato: “Voglio divertire il pubblico come lui”. Una foto di fine luglio lo ritrae in bermuda sotto la doccia. Con bici impennata.
Festeggia la settima maglia verde del Tour, nessuno come lui, dal 1953, da quando è stata istituita la classifica a punti. Nemmeno Eddy Merckx, che la vinse tre volte.
Al Tour di quest’anno, Sagan ha impennato in arrivi estremi. Alla cronometro di Pau, nel finale incattivito da uno strappo secco. Pubblico in delirio, organizzatori felici, sponsor in sollucchero. Non i puristi del ciclismo tradizionale. Ma la clip furoreggia su YouTube. La tappa successiva, traguardo in cima al micidiale Tourmalet. Peter replica. Non importa se arriva ventisei minuti dopo il vincitore Thibaut Pinot. Nell’ultimo tratto la strada s’impicca al cielo, la ruota davanti pure. La folla lo osanna. Lui saluta come un divo del cinema sulla passerella di Cannes. È il copione delle sue innumerevoli vittorie (114), comprese dodici tappe del Tour. Non a caso lo chiamano Tourminator. È d’indole generosa. Un ragazzo l’ha rincorso ed affiancato durante uno scollinamento. Teneva in mano la biografia del campione. Nell’altra mano, un pennarello. Sagan ha rallentato, ha autografato il libro. Stanco, ma sorridente: “La mia energia viene dai bambini e dai giovani che mi incitano”. È un adulto che non dimentica di essere stato ragazzino vivace. Una volta è saltato con la bici sul tetto di un’auto. Un’altra, ha risalito una scalinata a pedali.
È un istrione. Basta guardare i suoi video. Interpreta gli eroi del cinema, si traveste da Forrest Gump, Rocky, il Gladiatore. Fa il John Travolta di Grease nella scena dell’innamoramento. In realtà, corteggia l’ex moglie Katarina. Da cui ha divorziato, annunciandolo su Facebook. Oh, certe volte esagera. Come il giorno che sconfisse in volata il campione svizzero Fabian Cancellara. Era il terzo successo di seguito al Tour. Fece l’urlo di Hulk. L’altro nickname di Peter Sagan.
Insomma, questo sarà pure l’anno del centenario di Fausto Coppi. Che è poi la celebrazione di un ciclismo nostalgico e mitologico. Galleria di campioni dai volti scavati. Gregari annichiliti da fatiche immonde. Musi lunghi. Sguardi antichi, come la povertà. Quando la bicicletta era il mezzo di trasporto più economico e il ciclismo una fuga dalla miseria. Ma è anche l’anno della consacrazione di Peter Sagan. Che ha rotto questo copione. Ha spostato i confini del ciclismo. Contestando non l’epoca ma l’epica della sofferenza. Ha mixato la creatività di uno Youtuber e lo stile del Millenial. Giacomo Pellizzari gli ha dedicato un libro, dall’azzeccato titolo: Generazione Peter Sagan (edito da 66thA2ND, 15 Euro).
Dice Pellizzari: la bicicletta è cosa seria, la fatica non si cancella con un clic. Bisogna sempre seguire regole spesso severe. Al traguardo si arriva preferibilmente esausti. Tutto ciò è l’immagine (e la sostanza) del ciclismo tradizionale. Sagan, irriverente icona pop, secondo Pellizzari, ribalta l’estetica del ciclismo abitato da “campioni scorbutici che rifiutano parole superflue” (lo diceva Giovanni Arpino di Gimondi e Merckx). E ribalta i suoi canoni.
La bici è cool. Pedalare stanca, ma è una stanchezza di moda. Fa figo, insiste Pellizzari: come lo sci degli anni Settanta. “Bike is the new golf”. Pellizzari di bici e di corridori se ne intende: è stato direttore editoriale di Bike Channel, il canale Sky dedicato alle due ruote, scrive per la rivista Cyclist e per l’americana Peloton magazine. Ha un blog e pedala da sempre. Nella retorica “classica”, il ciclismo è il tempio degli eroi solitari, resi immensi dalla sofferenza e dal dolore degli sforzi. Ed è così che resiste nella memoria collettiva. Ci ricorda di quando il nostro era un Paese povero, quando la bicicletta era il mezzo di trasporto più economico. Correndo, andavi in fuga dalla miseria. Vigeva il comandamento dell’umiltà. L’ultimo di questi eroi, ricorda Pellizzari, è stato Marco Pantani. Corridore antico sacrificato ad una malintesa modernità. Sagan ha rimosso la figura del corridore azzannato dalla sofferenza, “creatura tragica” spesso anche fuori della corsa (come lo fu Coppi). Ha sovvertito i pregiudizi sul ciclismo, e su chi soprattutto lo pratica. Vuol dimostrare che esiste un ciclismo lontano dalla narrazione dolorosa “classica”. Come Sagan, la pensa un popolo sempre più numeroso di ciclisti rock. Il popolo di Instagram e YouTube, dei social network, delle community urbane per i quali Sagan è un profeta e andare in bici un fenomeno “aspirazionale”. Con una pecca: il ciclismo è diventato anche (purtroppo?) uno sport da selfie.