il Giornale, 5 agosto 2019
Intervista a Cheope, il figlio di Mogol
Alfredo Rapetti Mogol, in arte Cheope, è artista a tutto tondo, paroliere e pittore. Vive l’arte ereditata dal ramo materno, dedito alla grafica, e da quello paterno: è figlio di Mogol e nipote di Mariano, l’autore di Vecchio Scarpone e Le colline sono in fiore. Nato a Milano nel 1961, ha firmato una serie di testi iconici della canzone italiana, collaborando con Laura Pausini (Strani Amori), Raf (Il battito animale), Celentano, Mango, Nek, Ron, Elisa, Arisa, Francesca Abbate. Le sue canzoni hanno venduto più di 40 milioni di copie nel mondo. Da pittore, ha messo a punto la tecnica dell’impuntura, per cui fonde l’atto dello scrivere con l’azione del dipingere. La sua è una pittura su tela, piombo, cemento, carte antiche, marmo.
Nonno Mariano, papà Giulio, lei. Una stirpe di autori di testi. Come siamo messi con la quarta generazione?
«Mio figlio fa rap, ma sotto falso nome».
Che non svelerebbe neppure sotto tortura?
«Se lo dicessi, mi ucciderebbe. No, non si può proprio dire».
Domanda scontata. Crescere con tanto padre cosa ha implicato?
«All’inizio era papà e basta. Poi quando t’accorgi che sei figlio di un monumento, la situazione si fa più complicata, almeno fino a quando non trovi un tuo spazio».
Lei come e quando l’ha trovato?
«Ho iniziato subito a scrivere, facevo vedere cose anche a papà che era lì, pronto con la matita rossa o blu. Poi, dopo i 16 anni, ho deciso di emanciparmi dalla matita cercando un percorso personale che alla fine mi ha offerto più di quanto avrei mai pensato. Un percorso che mi ha portato a vendere tantissimi dischi, quando esistevano i dischi, e a vincere dei Grammy negli Usa. Ripeto, il successo è andato oltre le mie aspettative».
Quando è arrivato, esattamente?
«Vado per ordine. La prima canzone risale al 1983, ma scrivevo da almeno 6 o 7 anni. Buttavo giù cose. Poi sono passati altri dieci anni prima che mi potessi mantenere scrivendo. Il primo vero successo l’ho avuto con Il battito animale di Raf. Oltre al fatto di essere il figlio di Mogol, vivevo un problema comune a quanti fanno il mio mestiere. A un certo punto scatta inevitabile la domanda: che canzone hai scritto? E se non hai scritto una canzone conosciuta da tutti, sei nessuno. Quindi c’era l’ansia di questa canzone».
Che finalmente arrivò. Era il 1993.
«Il battito animale vinse il Festival Bar. Andavo in giro e ritrovavo la canzone nei jukebox. Il caso vuole che fosse diventata la colonna sonora del primo grande amore di Laura Pausini, che mi chiamò. Iniziai quindi a lavorare con lei, Berté, Celentano Morandi, fino a Ramazzotti».
Quale fu la reazione di papà al primo successo?
«Si sentiva sollevato. E anch’io, devo dire. Quello era stato un disco rocambolesco, fatto di notte. All’epoca facevo l’editore musicale, lavoravo dalle nove del mattino fino alle sei di sera, come un impiegato. Raf si svegliava alle tre del pomeriggio, praticamente lui faceva colazione quando io lasciavo l’ufficio. A quel punto iniziava la mia seconda vita lavorativa, che andava avanti tutta notte. Dopo mesi con questi ritmi, ero così esausto che finii per addormentarmi sulla bicicletta andando contro un taxi. Mi venne pure la polmonite».
È quasi un azzardo fare lo stesso mestiere di papà, il numero uno della canzone italiana.
«È stato parecchio duro. Ma papà ha una tale facilità di scrittura che non è in gara. È un gigante. Lui sente la musica e scrive con una velocità sorprendente. È al di là dei giochi, nessun confronto».
È consapevole di questo dono incredibile?
«Sì».
Fu poi Celentano a unire i Mogol junior e senior.
«Dopo vent’anni trascorsi a scrivere e qualche Grammy, papà mi disse che era arrivato il momento di fare una canzone insieme».
Quanto si sente con lui?
«Almeno una volta al mese, anche perché insegno nella sua scuola a Toscolano, in Umbria».
Andiamo al nonno.
«Lavorava per l’editrice Ricordi, era il direttore generale. Credeva nella canzone leggera, per questo aprì 50 uffici nel mondo per rappresentarla».
Ora anche sulla carta d’identità compare il nome Mogol, giusto?
«Da una decina d’anni papà ha ottenuto l’autorizzazione ad aggiungerlo al cognome. Ci teneva molto, e a noi fa piacere tramandare questo nome legato all’attività di scrittore».
I Rapetti Mogol dimostrano che la genetica fa la sua parte.
«Chissà. Io posso solo dire che papà mi sconsigliò subito di scrivere canzoni perché diceva che con gli anni ’80 il mestiere sarebbe morto. Era poi consapevole della difficoltà di scrivere e di vivere di scrittura».
Soprattutto quando la tua lingua è l’italiano, parlata da 60 milioni di persone briciole.
«Eh sì. La Germania ha tre volte il nostro mercato, la Francia più del doppio. Per non parlare del mercato inglese. Si aggiunga che ci confrontiamo con una tradizione letteraria particolare, abbiamo testi che liricamente sono fra i più belli in assoluto. Gli altri Paesi non hanno una tradizione di scrittura così profonda, noi abbiamo familiarità con la lirica, quindi è più difficile essere accettati».
A parte suo padre, quali altri autori italiani ammira?
«Dalla, De André e De Gregori».
E dell’ultima generazione?
«Il rap sta dando la possibilità a tanti ragazzi di esprimersi, prima invece se non avevi la voce non c’era niente da fare. Io sono estremamente favorevole a questo stile, i rapper sono pensanti, riflettono sulle cose. E la riflessione è sempre positiva. Ora anche in Italia sta accadendo quello che all’estero si verifica da anni: i giovani che si avvicinano alla musica. Altrove i ragazzi iniziano a fare una propria band già ai tempi della scuola, da noi si suona il piffero Trovo tutto questo molto interessante anche da un punto di vista sociologico oltre che artistico. Ci sono penne valide nel rap, se poi non naufragheranno entro i prossimi cinquant’anni, questo non lo so».
Torniamo a lei. Come è arrivato alla pittura?
«È stata determinante la parte materna, nonno era presidente dell’Associazione Arti Grafiche di Milano. Nel laboratorio sentivi l’odore dell’inchiostro. Ricordo la camera oscura. Da piccolo ero molto affascinato dalla pittura, l’ho frequentata con costanza fino a quando ho trovato la vera voce della mia pittura che era la parola. E mi sono riconosciuto».
Ha fatto accademie?
«Da giovanissimo avevo frequentato la scuola del fumetto, avevo una mano decente. Poi accadde che alla morte della nonna materna, mio zio mi regalò degli armadi art déco. Non ci stavano tutti in casa, erano rimasti dei ripiani e mi spiaceva buttarli. Così li dipinsi di nero e cominciai a scriverci sopra. Proseguii con questa tecnica. S’innamorò del mio lavoro Fabrizio Ferri e ci fece un libro. Cominciai così a fare sempre più cose, che tra l’altro incontravano il gusto del pubblico».
Sono più le ore dedicate alla scrittura o alla pittura?
«Le giornate si dividono abbastanza equamente. Forse dedico più tempo alla pittura. Comunque scrivo almeno due giorni alla settimana».
Si guadagna di più facendo il pittore o lo scrittore?
«Per quanto mi riguarda, è la scrittura la prima voce di reddito, ho scritto tanto e poi insegno».
Torniamo alla collaborazione con Laura Pausini...
«Con Laura abbiamo lavorato a oltre 60 canzoni. E devo ringraziarla perché soprattutto all’inizio, questa collaborazione mi aiutò a pagare le bollette e andare in vacanza».
Quando scrisse il testo Strani Amori sentiva che sarebbe diventato una hit?
«Ero convinto che funzionasse, questo sì...».
A proposito di testi. Chi sono i suoi poeti italiani del cuore?
«Franco Arminio e Mariangela Gualtieri».
E del passato?
«Direi Quasimodo e Montale».
Ama la parola asciutta, novecentesca. Ma se andassimo ai grandi del passato?
«Foscolo non si può più leggere ormai, mentre Leopardi è ancora moderno».
E Dante dove lo mettiamo?
«Dante è sopra tutti. Non ce n’è per nessuno. Fa male la testa anche solo a pensare alla mole delle sue opere».
Un tuffo nel passato. Lei ragazzo che in casa si imbatte nei giganti della canzone italiana
«Per me erano solo amici di papà, persone grandi che venivano in casa. Era tutto molto normale. Non mi rendevo neppure conto di quell’epoca straordinaria. Da adolescente divenni un po’ più consapevole, ma finché io stesso non ho iniziato a occuparmi professionalmente di questo mondo, non ero conscio fino in fondo».
Un ricordo di Lucio Battisti?
«Era il 1983 e stavo partendo per il servizio militare. Avevo i capelli cortissimi. Battisti mi disse che sembravo un marines».
E di Mina?
«Ammetto che è stata l’unica artista a farmi veramente impressione. Mi emozionava quella figura iconica. È una persona dal grande magnetismo».
Ci racconti un aneddoto.
«Papà mi chiese di preparare un caffè. Ero nervosissimo, già erano già gli anni in cui Mina non si faceva vedere. Così portai sale anziché zucchero».
E lei?
«Fu gentile, molto gentile. Rifeci il caffè, naturalmente».
Perché si fa chiamare Cheope?
«Prima di tutto per distinguermi da papà. Poi c’entra l’amore per l’archeologia».
Ha studiato Scienze politiche...
«Quando mi iscrissi all’università non avevo passioni particolari. Così, pensai che questa facoltà mi avrebbe aiutato a decodificare il mondo del presente. Sapevo che gli esami non erano di difficoltà insormontabile, particolare non secondario perché già lavoravo in una casa editrice americana».
Lei che ha scritto Combattente di Mannoia, ha la tempra del lottatore?
«Diciamo che nelle cose che amo fare sono tenace. Sono abbastanza competitivo, però non arrivo mai a un livello di competitività ossessiva. Quindi sì, se è necessario lotto».
Soddisfatto del suo presente?
«Sto vivendo un momento di grazia. Mi sto divertendo molto. Ora ho la fortuna di fare progetti che mi interessano e con artisti che stimo. Mi sento particolarmente creativo. Di sicuro ha inciso l’incontro artisticamente straordinario con Federica Abbate (ndr, seconda a Sanremo), è la giovane cantautrice che negli ultimi cinque anni ha raccolto più successo di tutti. Ha 28 anni e io 58 ma ci troviamo perfettamente».
Spingiamo lo sguardo oltre le Alpi. Chi sono i cantautori stranieri che ama?
«Bob Dylan mi piace anche per il modo di cantare. Ha lasciato perdere il canto bello e piacevole, per dire le cose in faccia. Like a Rolling Stone è la canzone che preferisco.
Altri cantanti o complessi?
«Musicalmente i Coldplay».
È più faticoso dipingere o scrivere testi?
«Con la musica riparti sempre da capo, ti togli la pelle e ricominci. Con la pittura hai già un tuo stile, dei codici che riproponi. La musica ti consente di proporti con più facilità, come pittore è più difficile farsi conoscere, in compenso ora la musica è ormai gratis, scarichi senza problemi tutto quello che vuoi, mentre un quadro lo devi comprare».
Che messaggio lancia attraverso le sue tele?
«Viviamo in un’epoca di scambi, di messaggi veloci, io invece chiedo ascolto a chi osserva i miei quadri. Cercare di interpretare un lavoro richiede tempo, ma fa trovare delle verità che magari non si sapeva di avere».