Libero, 5 agosto 2019
Intervista a Giusva Fioranvanti. Parla della strage di Bologna
«Siamo stati all’inferno ma siamo riusciti a tornare».
Trentanove anni dopo è questo il bilancio personale di Valerio “Giusva” Fioravanti, fondatore dei Nar, condannato a più ergastoli per lotta armata e, assieme alla moglie Francesca Mambro e a Luigi Ciavardini, per la strage che il 2 agosto del 1980 a Bologna costò la vita ad ottantacinque persone. Una sentenza, quest’ultima e unica, per un reato, «il più grave mai commesso in Italia», che non ha mai accettato e sulla quale ha intrapreso una lunga battaglia di verità che potrebbe trovare una svolta grazie alle ultime novità emerse dall’inchiesta Cavallini ma anche dagli appelli di un fronte parlamentare, rilanciati da Renato Farina su Libero, che ha “visto” carte e atti che potrebbero finalmente abbattere
«il muro di menzogna».
Fioravanti, partiamo con il suo bilancio.
«Da questa storia ho ereditato una compagna di vita con cui cammino da quarant’anni e una figlia deliziosa che si è appena maturata al liceo classico: per me questa storia è finita bene. Vent’anni nel tritacarne, ma ne sono uscito. Tutto ciò vale il prezzo che ho pagato».
Come vivete lei e la sua famiglia il 2 agosto?
«In casa lo viviamo diversamente, io mi limito a staccare tutto, cerco di non pensarci, mentre Francesca lo soffre un po’ di più. Ma non è niente di particolare: è un incidente nella nostra vita. È come ricordare una madre scomparsa per un male... insomma è qualcosa di grave che ci è successo ma della quale non abbiamo colpa».
Che ricordo ha di quel giorno? Dove si trovava?
«Pochissimi ricordi. Eravamo in giro per l’Italia a fare tutt’altre cose. In tutt’altra circostanza».
Tre giorni fa, per l’anniversario di Bologna, su molti giornali si leggeva ancora
«strage di matrice fascista».
La verità processuale è questa. Sembra una sorta di dogma per la coscienza repubblicana.
«Non è un dogma. È una sciatteria della coscienza repubblicana perché non si conoscono neanche le sentenze. È la maledizione della nuova cultura del “copia e incolla” per cui tutti copiano e incollano e nessuno si ferma a studiare le carte. Il nostro fu un processo particolare che si concluse con una sentenza confermata dalla Cassazione che, testualmente, diceva: “Probabilmente hanno ragione gli imputati quando asseriscono di non essere stati a Bologna quel giorno, comunque loro fanno parte del gruppo che ha organizzato la strage. Dunque, con le inchieste successive verranno individuati gli esecutori materiali, i mandanti, le origini dell’esplosivo e il movente...”. Venivamo condannati come anello intermedio di una indagine che avrebbe dovuto proseguire».
Sono passati trentanove anni nel frattempo…
«E loro non hanno trovato gli esecutori materiali. Alcuni giornalisti di pochi scrupoli con alcune “astuzie” hanno cominciato a scrivere che comunque gli esecutori materiali erano stati individuati e piano piano tutti stanno copiando questa formula. Ma secondo la sentenza definitiva gli esecutori materiali non sono mai stati individuati e mancano ancora all’appello le origini dell’esplosivo, il mandante e il movente».
È rimasta la verità di comodo?
«Ci sono dei bravi ricercatori, dei bravi giudici in pensione che hanno trovato delle cose nuove: e ciò lo seguiamo con attenzione ma anche con un pizzico di distacco perché siamo consapevoli della difficoltà di questo lavoro. La verità, per come l’hanno archiviata, è comoda, non fa male a nessuno».
Eppure, giusto qualche giorno fa, nell’ambito del processo Cavallini è arrivato il colpo di scena, il ritrovamento dell’interruttore che ha riportato fatalmente al centro la tesi di Francesco Cossiga: la pista palestinese.
«Un colpo di scena relativo. La perizia ha detto che si trattava di una bomba composta con un tipo di esplosivo che per certi versi somiglia alle bombe che venivano usate da un gruppo terroristico di estrema sinistra, legato ai palestinesi: il gruppo di Carlos. La perizia, da questo punto di vista, traccia dei paralleli: non dice questa è una bomba di sinistra, dice questa è una bomba dissimile dalle bombe usate da alcune persone di estrema destra e simile a quelle utilizzate dalla sinistra internazionalista ma non arriva ad una identificazione. Certo, è un grosso passo avanti. Soprattutto testimonia che tutte le perizie tecniche usate per condannarci erano completamente sbagliate».
Arriviamo ai famosi fascicoli, sui quali Renato Farina ha lanciato un appello a Conte proprio su Libero, connessi alla storia delle Br e ai loro rapporti con alcune cellule mediorientali. Cosa possono aggiungere?
«Francesco Cossiga ci disse: “Ragazzi, si tratta di una cosa complessa, voi non saprete la verità, non la saprà neppure vostra figlia, la saprà vostra nipote. Ci vorrà tempo per la verità: quello che è successo è che i palestinesi hanno avuto un incidente...”. Ai tempi ci siamo rimasti un po’ male, ci sembrava una cosa poco credibile. Poi, con il passare degli anni, sono usciti i riscontri e quello più clamoroso è stata l’intervista che il Corriere della Sera fece a Carlos in cui spiegò di sapere qualcosa sulla strage di Bologna. Di più: disse che quel giorno sul treno c’era uno dei suoi uomini che si stava spostando, ha avuto l’impressione di essere pedinato, è sceso di corsa dal treno, è uscito dalla stazione e subito dopo è avvenuta l’esplosione. Questo fu un fulmine a ciel sereno che indusse dei bravi ricercatori a cercare un fascicolo negli archivi della questura di Bologna in cui effettivamente l’uomo di Carlos era stato pedinato ed identificato. Lì si è aperta la famosa pista palestinese che però è molto controversa».
In che senso?
«Non è una pista facile da seguire ma sicuramente è importante: non tanto per quello che si è scoperto ma per il numero cospicuo di persone che cercano di tenerla nascosta. Sembra importante, insomma, per quanto la vogliono negare, sminuire, svilire. Questo insospettisce molto».
Per Paolo Bolognesi, il presidente dell’associazione delle vittime, questa pista serve
«ad intossicare l’opinione pubblica»….
«Bolognesi purtroppo ha scritto un libro dove sostiene che anche i Templari sono coinvolti nella strage di Bologna… Mi astengo da ulteriori commenti».
In che contesto è maturata la vostra scelta di passare alla lotta armata e dare vita ai Nar?
«C’è stato un momento in cui gli attivisti del Msi, quelli che per anni avevano difeso le piazze, si sono sentiti non più protetti dal partito davanti al livello di violenza della sinistra che aumentava fortemente, e dalla passività delle forze dell’ordine. E quindi abbiamo avviato un sistema di autodifesa che ci ha portato nell’arco di un paio di anni in aperta rottura con il partito, anche se da posizioni non estremistiche. Eravamo degli attivisti che hanno deciso di difendersi da soli. Tutto qua».
Dopo Bologna iniziò la persecuzione per la destra.
«È stato il discrimine. È stato il nuovo inizio di una strategia della dannazione... Lo spaventare l’elettore medio – guardate che se votate la destra poi quelli fanno saltare in aria le stazioni – è stato un discorso “inventato” dal Pci ma che è andato benissimo a quelli che erano i diretti concorrenti del Msi: i democristiani. Da quel tipo di racconto, di narrazione, di leggenda hanno tratto un notevole vantaggio».
Come mai non siete stati terroristi “glamour” e coccolati come Cesare Battisti?
«Perché noi abbiamo scelto di essere di destra e abbiamo tenuto un atteggiamento di destra di fronte alla palese ingiustizia che stavamo subendo a Bologna. Non abbiamo mai inscenato uno sciopero della fame, non abbiamo mai detto a nessun di fare una raccolta di firme: tanto è vero che il comitato a nostro supporto non diceva “sono innocenti” ma si poneva una domanda, “e se fossero innocenti?”, che voleva anche dire se sono innocenti loro vuol dire che i veri responsabili sono fuori».
Perché ha accettato questa intervista?
«Non è tanto un diritto nostro di vedere riscritta la fedina penale, che tutto sommato ci interessa poco perché di altre cose sbagliate ne abbiamo fatte, ma è un dovere civile, una volta all’anno, senza dare fastidio e senza pretendere di andare a reti unificate, ricordare che quel processo è stato fatto male e che nasconde qualcosa. Non è la cosa più piacevole della mia vita, però una volta all’anno va fatto e non potevo non farlo con Libero perché quello che ha fatto Renato Farina qualche giorno fa è un piccolo gesto di disobbedienza civile ma molto, molto, molto importante: un gesto di coraggio, al quale io non potevo che rispondere con questo colloquio».
È nato un gruppo interparlamentare che chiede a Conte proprio di desecretare quegli atti assieme a tutti gli altri della stagione degli anni di piombo. Può essere questo il dispositivo per la verità?
«Non so se l’intergruppo riuscirà a scalfire questo muro. Dipende dal premier se ribadirà il segreto; dal Copasir se collaborerà o meno; secondo me non collaboreranno perché non vedo né il vantaggio, in realtà, ma neanche il coraggio».
Non è che le vere
«zone d’ombra», rilanciate anche da Sergio Mattarella che ha insistito sulla matrice fascista, sono proprio questi atti?
«Il discorso di Mattarella mi è sembrato un passo indietro rispetto ad altri discorsi. Ecco, mi sembra che ci sia un po’ di preoccupazione su questa attività dell’intergruppo e sul fatto che ormai si sa quali sono i fonogrammi. Ormai sappiamo: in tanti hanno visto queste carte, in pochi hanno avuto il coraggio di parlarne e in tantissimi si slogano i muscoli del collo perché girano la testa dall’altra parte di scatto e non vogliono vedere. Di fronte a chi non vuole vedere c’è molto poco che Fioravanti può fare, c’è molto poco che i coraggiosi possono fare. C’è un muro invalicabile che separa e separerà per sempre chi il coraggio ce l’ha e chi il coraggio non ce l’ha».
Se guarda l’Italia di oggi che cosa pensa?
«Questo è esattamente il tipo di domanda al quale io ritengo di non dover rispondere. La legge fa bene a dare una seconda opportunità ai criminali, politici o non politici, di tornare nella società. Nonostante gli errori di valutazione che ho fatto in passato, avrei un diritto teorico a parlare di politica, però è un diritto che non voglio utilizzare. Io credo che in cambio di una vita serena che ho ottenuto dalle leggi del mio Paese mi devo autocensurare: non devo esprimere pareri sulla politica. Sono pareri che ho ma io ho fatto errori più grandi e più gravi di quelli che stanno facendo i nostri politici di oggi».
Ricordando Marco Pannella – che ha accolto lei e Francesca Mambro in “Nessuno tocchi Caino” – spiegò che le diceva: anche i figli che sbagliano devono essere aiutati. Lo farà a sua volta con sua figlia?
«Per il momento l’unico errore suo è di essere figlia nostra. Ma sembra proprio che ne sia felice».