Libero, 5 agosto 2019
Intervista ad Adriano Panatta
Nel 1976, mentre il nostro paese si trovava schiacciato tra terrorismo, brigate rosse e compromesso storico, c’era un giovane talento sportivo che stava per esplodere. Adriano Panatta era già tra i primi dieci giocatori al mondo e molto aveva vinto, mai però come in quell’anno in cui divenne icona dello sport oltre che della nostra società. Panatta come è iniziato il 1976 sportivamente parlando?
«Non avevo iniziato in modo particolarmente brillante, i primi tornei li persi subito e in malo modo perché non mi sentivo in grande forma fisica”.
Mentre dal punto di vista personale?
«Andava molto bene. Mi ero sposato l’anno prima con Rosaria (la mia ex moglie oggi) e avevo appena avuto Niccolò il mio primogenito”.
Poi qualcosa cambio?
«Fu agli internazionali di Italia al Foro Italico sulla mia amata terra rossa. Il primo turno dovevo giocarlo con un australiano Kim Warwick un ottimo giocatore di doppio. Si giocava al meglio dei due set ed io tenevo molto agli internazionali. Fu una partita incredibile perché all’inizio non mi sentivo in forma e persi il primo set e nel secondo dovetti rimontare ben 11 match ball. Ma riuscii a farlo e alla fine vinsi il torneo battendo in finale Guillermo Vilas, che nel 1974 e 1975 era il numero uno mondiale”.
La vittoria agli internazionali d’Italia le ridiede slancio in un anno fino a prima non entusiasmante, come festeggiò la vittoria?
«In nessun modo, partii immediatamente per Parigi perché dovevo giocare al Rolland Garros il torneo del grande slam. Ma anche a Parigi l’inizio fu disastroso e dovetti rimontare, con un tuffo sottorete, un match point contro un giocatore cecoslovacco”.
Dopo però ci fu una ennesima cavalcata vittoriosa?
«Fu entusiasmante, battei in sequenza Bjorn Borg nei quarti di finale e poi Eddie Dibbs e Harold Solomon rispettivamente in semifinale e finale”.
Ci fu un episodio in quella vittoria al Rolland Garros che ricorda in modo particolare?
«Rischiai di non giocare la finale perché mi mancavano le scarpe da tennis”.
In che senso?
«Lasciavo le scarpe da tennis nello spogliatoio perché si asciugassero e Bertolucci (per errore) le prese portandole via. Così mi accorsi che non potevo scendere in campo. Chiamai a Roma un mio amico che ne portò un paio a Fiumicino e le diede al comandante del primo volo su Parigi. Insomma, quelle scarpe mi arrivarono in campo a pochi minuti dalla finale con Solomon”.
Sarà stato nervoso?
«Preoccupato sì. E dissi infatti una frase al mio avversario americano “come pensi di vincere così basso e brutto“. Solomon non mi parlò per cinque anni”.
E anche questo torneo fu messo nel suo palmares, passiamo al 1976 non era un anno socialmente tranquillo, come lo viveva lei da sportivo?
«Erano anni molto bui, io ero sempre in giro per il mondo ma appena tornavo in Italia percepivo e vivevo una tensione sociale che, forse, il nostro paese non aveva mai vissuto”.
Mentre in Italia esisteva una tensione altissima la squadra di tennis (i famosi quattro moschettieri guidati da Nicola Pietrangeli) stava giocando la Coppa Davis arrivando fino alla finale da giocare con il Cile di Pinochet. Una partita molto discussa?
«La vera finale, sportivamente parlando, fu quella contro l’Australia giocata a Roma sulla terra rossa. Il Cile arrivò alla finale dopo aver vinto la semifinale per forfait contro l’ex URSS. Dovevamo andare in Cile a giocare e subito partì la polemica politica”.
Cosa accadde?
«La sinistra italiana iniziò una campagna contro la nostra trasferta in Cile. Era quella la patria del dittatore Pinochet che aveva con un colpo di stato militare preso il potere della nazione sudamericana l’11 settembre nel 1973. Inoltre l’Estadio National che era accanto al luogo dove noi dovevamo giocare la finale, era stato usato come vero e proprio campo di concentramento dove furono messi gli oppositori del regime”.
Soltanto la politica entrò in polemica con la vostra trasferta in Cile ?
«No, ci fu un movimento d’opinione guidato dagli intellettuali dell’epoca come Dario Fo, Franca Rame e Domenico Modugno che criticava ferocemente la possibilità di giocare quella sfida”.
La politica cosa diceva?
«Nulla. Rimandava la scelta al CONI e il CONI alla Federazione tennis, ma nessuno decideva”.
Voi giocatori?
«Noi volevamo andare anche perché sarebbe stata una sconfitta per tutto il mondo democratico fare vincere la Coppa Davis ad un paese guidato da un regime sanguinario”.
Cosa sbloccò il tutto?
«Una lettera del PCI clandestino cileno che scrisse in merito alla opportunità di giocare quella finale. Così la federazione con l’assenso del CONI ci permise di andare a giocare”.
Arrivati in Cile che clima c’era?
«Vedevamo poco perché eravamo scortati dell’albergo al campo da gioco ma una cosa ci stupì”.
Cosa?
«Pensavamo ai fischi del pubblico cileno ed invece questo fu sempre educato e gentile. Mai uno sgarro”.
In italia invece l’avevano anche insultata con un coro?
«“Panatta milionario, Pinochet sanguinario” era questo, brutto e falso. Milionario cosa! Siccome giocavo al tennis Parioli a Roma mi diedero del miliardario quando in realtà iniziai a giocare a tennis in quel circolo perché mio papà ne era il custode. Inoltre la mia famiglia è sempre stata di sinistra, una sinistra progressista”.
Era comunista?
«Comunista no, mai, così come mai fascista. Sono sempre stato anticomunista e antifascista. Mentre però il fascismo non l’avevo vissuto, il comunismo l’ho toccato con mano girando l’Europa in nazioni come Polonia, Cecoslovacchia”.
Anticomunista, antifascista e quindi?
«Mio nonno era amico di Nenni diciamo che sono un socialista liberale”.
In quella finale ci fu un episodio importante, quello delle magliette rosse. Come venne l’idea?
«Venne a me e Paolo (Bertolucci) che durante la sfida decisiva del doppio volevamo dare un segnale di vicinanza. Non lo dicemmo a nessuno e nessuno se ne accorse. Anni dopo venne fatto un film. Mi ricordo che eravamo anche preoccupati perché il nostro non era un gesto provocatorio ma un segno di vicinanza al popolo cileno. Il silenzio del mondo della informazione ci fece abbastanza impressione, così come il nostro ritorno in Italia”.
Cosa accadde?
«Nessuno venne a salutarci come se nulla fosse accaduto. Questo è stato grazie al veleno che c’era stato nella scelta di giocare la finale. Ma tutto ciò fa parte della vita; riconoscere che la polemica non aveva senso non era semplice, ma per fortuna lo sport vince sempre sulle parole.