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 2019  agosto 05 Lunedì calendario

Pietro Finisguerra, l’uomo che fotografava la mafia

Qualche giorno fa, dentro un vecchio baule in soffitta, ha ritrovato alcuni negativi in bianco e nero. «Pensavo fossero gli scatti dei compleanni dei miei figli – sorride – invece era una carrellata di facce che ho fotografato per una vita». Facce di mafiosi autorevoli – Ragusa, Lamberti, Mazzara, Sbeglia, Castronovo quelli su cui indagavano Falcone e Borsellino negli anni Ottanta: arrivavano direttamente da New York per prendere un caffè a Palermo e discutere di partite miliardarie di eroina. Al bar o per strada, pensavano di non dare nell’occhio. Invece, il finanziere Pietro Finisguerra era sempre lì, capelli lunghi e borsa a tracolla, con la sua Nikon “Fm2” e il teleobiettivo. Dietro una siepe o un’auto, dentro il furgone modello “figli dei fiori”, oppure sopra un albero.
Per trent’anni, quest’uomo ha fotografato la mafia. Come fosse un reporter di guerra, in una trincea ogni volta diversa. Eppure, nessun giornale, nessun libro, ha mai scritto una sola riga su di lui. «Semplicemente, perché ho fatto un lavoro riservato nella Guardia di finanza», sussurra. Ma anche adesso che di anni ne ha 63 ed è ormai in pensione dal 2011 (col grado di maresciallo di complemento) Pietro Finisguerra ha scelto di stare lontano dai riflettori dell’antimafia. Piuttosto, preferisce partecipare a piccoli concorsi per fotografi amatoriali e di tanto in tanto va nella sua Puglia, per coltivare ulivi.
Adesso che ha ritrovato una copia di alcuni negativi, i ricordi e le emozioni si rincorrono. «Nel febbraio 1980, il giudice Falcone aveva ordinato di pedinare alcuni mafiosi arrivati dagli Stati Uniti. Io avevo 24 anni, ero stato appena assegnato al nucleo regionale di polizia tributaria di Palermo dopo essermi occupato di controlli su zucchero e benzina. Dovevo sostituire il maresciallo maggiore fotografo, che comunque non faceva mai appostamenti, se ne stava seduto in macchina. Io, invece, mi inventai un metodo di lavoro. E non ho più smesso». Quelle immagini diventarono presto uno dei riscontri più importanti nel processo Spatola. E non è solo la storia della mafia e dell’antimafia, quelle foto sono di drammatica attualità: dopo la morte di Riina, due anni fa, diversi padrini sono tornati dagli States con i loro capitali. Per fare cosa? Proprio esaminando gli atti del processo Spatola, Repubblica ha scoperto la storia del finanziere che ha fotografato la mafia. E l’ha rintracciato.
«Nel 1983, arrivò a Palermo un agente speciale della Dea, l’agenzia antidroga americana – ci ha raccontato – Ogni mattina, andavo a prenderlo all’hotel Excelsior con la mia Vespa. E iniziavamo a pedinare con pazienza alcuni mafiosi provenienti da Brooklyn». All’epoca, non c’erano ancora microspie e telecamere per intercettare ogni respiro dei mafiosi, così le fotografie del finanziere Finisguerra erano una delle poche possibilità per provare contatti e relazioni. Quegli scatti del 1983 vennero spediti oltreoceano per “Pizza Connection”, il processo al più grande affare internazionale di droga mai realizzato dalla mafia siciliana. E anche questa volta, le foto raccontano una storia attuale: perché molti dei tesori di quei mafiosi non sono stati mai individuati e sequestrati. Era il cruccio di Giovanni Falcone anche nel suo ultimo incarico, al ministero della Giustizia: provava a sbloccare le rogatorie avviate dai magistrati siciliani, che dagli anni Ottanta chiedevano notizie alle banche svizzere (e non ricevevano alcuna risposta).
Il piccolo finanziere che nessuno ha mai conosciuto ha raccontato una storia davvero grande. «A mia moglie avevo detto che scattavo solo qualche foto alla festa della Finanza», sorride. Invece, ogni giorno, rischiava la vita. «Facevo il mio dovere, tutto qui». E torna a raccontare: «Per non farmi riconoscere, indossavo anche una tuta da operaio dell’Enel, o il cappello da postino. E come sempre bisognava mettere a fuoco velocemente, per non farsi scappare nessun incontro». Dentro al furgone, c’era però un caldo terribile. Finisguerra beveva acqua e zucchero per resistere. «E facevo la pipì dentro una bottiglia – ricorda – senza muovermi troppo». Una volta, a Sant’Erasmo, i mafiosi si accorsero che c’era qualcuno dentro al furgone sistemato davanti al bar che dovevamo tenere sotto controllo. «Il collega, che era poco distante, capì: entrò nel locale e comprò una bottiglia di whisky, poi mi venne a prendere. Qualche minuto dopo, i boss commentarono al telefono, che era intercettato: “Tranquilli, erano solo due ubriaconi"».
Oggi, l’uomo che ha immortalato la mafia nei suoi scatti fotografa la gente semplice che incontra per strada. “Continuo a cercare lo scatto giusto”, dice.