5 agosto 2019
Sulle ultime stragi in America
wikipedia
La strage di El Paso è avvenuta il 3 agosto 2019 nella città texana di El Paso, negli Stati Uniti d’America: nella sparatoria, compiuta all’interno di un centro commerciale Walmart, sono rimaste uccise 20 persone mentre altre 26 sono rimaste ferite.[1] Il sicario della strage, il ventunenne Patrick Crusius, è stato arrestato subito dopo l’attacco, mentre l’FBI indaga su atto di terrorismo interno e crimine d’odio.[2]
A meno di 24 ore dalla strage, la nazione è stata colpita da un’altra sparatoria, avvenuta a Dayton, nell’Ohio, in cui sono morte 9 persone.
La mattina di sabato 3 agosto 2019, alle ore 10:39 ora locale, un uomo armato di fucile WASR-10, versione civile dell’AK-47, è entrato nel supercenter Walmart, nel complesso commerciale Cielo Vista nella periferia est di El Paso, Texas, ha aperto il fuoco dapprima contro i clienti presenti nel parcheggio e poi contro le persone presenti all’interno della struttura.[3]
I primi soccorsi sono accorsi a circa sei minuti dall’inizio della strage; mentre venivano prestate cure ai feriti, la polizia locale ha bloccato e arrestato il killer, che si è arreso senza difficoltà alle forze dell’ordine.[4]
Nell’attacco risultano decedute 20 persone, di cui 4 bambini, mentre altre 26 risultano ferite. Tra le vittime ci sono anche sette cittadini messicani.[6]
Per la sparatoria al centro commerciale Walmart di El Paso la polizia ha fermato Patrick Crusius, 21 anni, residente ad Allen, in Texas.[7] Secondo quanto scoperto sul suo account Twitter, era un repubblicano, sostenitore di Donald Trump e di molti politici di destra. L’account, tuttavia, risulta inattivo dall’aprile 2017.[8]
Poco prima di compiere la strage, Crusius avrebbe pubblicato un manifesto suprematista sul sito imageboard 8chan, in cui elogiava gli attentati di Christchurch, avvenuti il 15 marzo 2019 in Nuova Zelanda e accusava con tono razziale all’immigrazione da parte di ispanici e latinoamericani. Sottolinea inoltre che la crescente presenza di individui ispanici nella nazione abbia giocato un ruolo fondamentale sul dominio del Partito Democratico negli Stati Uniti.[9][10]
Guido olimpio sul Corriere della Sera
Patrick Crusius era in missione. Voleva «uccidere il maggior numero di messicani possibili». Ed ha dato l’assalto al Walmart di El Paso. Prima di lui il killer di Girloy. Anche lui in missione, animato dal razzismo, ha studiato per colpire la folla. Poi i morti nel bar di Dayton freddati a fucilate.
Connor Betts ha attaccato un locale. Aveva giubbotto anti-proiettile, arma con caricatore ad alta capacità. Ha tirato sui clienti per un minuto, un giro di lancette che ha separato la vita dalla morte. Modus operandi simile agli altri, Betts avrebbe assassinato anche la sorella e il suo fidanzato. Ignoto per ora il movente, nel suo passato una sospensione dalla scuola perché aveva preparato una lista di bersagli.
È una sequenza spaventosa di mass shooters, killer di massa. Ventenni americani diventati terroristi «personali», mossi da rabbia e motivazioni proprie. Altri innescati dal suprematismo. Una sfida in ascesa, ripetuta, con episodi collegabili a quanto è avvenuto all’estero. Crusius ha scritto nel suo manifesto di essersi ispirato all’autore della strage delle moschee in Nuova Zelanda, Brenton Tarrant, e quest’ultimo aveva ammirato l’estremista norvegese Anders Breivik, il mostro di Utoya. In questa offensiva – globale – non mancano esempi da copiare. È una violenza «a seguire», senza che siano necessari ordini da ricevere o da impartire.
Il direttore dell’Fbi Christopher Wray ha messo in guardia sul pericolo: negli ultimi mesi abbiamo arrestato 90 terroristi suprematisti e 100 legati a quello internazionale. Gli specialisti sottolineano come nel 2018 gli attentati compiuti da estrema destra negli Usa siano stati 17, quattro in più dell’anno precedente. E aggiungono come siano i più letali. Il «bianco» mira a fare tante vittime, ha accesso facile alle armi, sa come aggirare controlli deboli. È una tendenza già vista per gli sparatori senza ideologia. Adam Lanza, prima di falciare i bimbi nelle aule di Newtown, ha fatto ricerche – da studioso – su chi lo ha preceduto. Stessa cosa Stephen Paddock, il cecchino di Las Vegas. È l’ossessione del record, per essere ricordati. Tacche su un cinturone, macabri trofei per distinguersi in una galleria affollata di massacratori.
Lo xenofobo ha colorato di politica questa mania distruttrice. È convinto di essere l’ultimo paladino, paventa l’invasione dei migranti, rilancia frasi fatte. Imitando i qaedisti presenta la propria lotta in chiave difensiva. Crusius lo ha ribadito sostenendo che non è possibile restare passivi. È incoraggiato dal «clima» e – accusano i critici – da un presidente che si fa pregare per prendere le distanze, condanna in ritardo (lo ha fatto ieri in modo pubblico), sembra fiancheggiare certe spinte. Polemiche inevitabili, scontri che alla fine fanno il gioco di quanti cercano di provocare fratture nella società e di allargare quelle esistenti.
Il neonazista ha i punti di incontro su Internet, i forum come 8chan, un vero pozzo di veleni. Luoghi dove trova altri come lui. Non è diverso dal militante del Califfato che vive a Bruxelles e poi organizza un attentato. In entrambi i casi è un errore definirli lupi solitari in quanto aderiscono a una comunità. Sono rinchiusi in loro stessi, però sono parte di un network ideologico. Hanno tanto da condividere, elaborano documenti «strategici». Agiscono per lo più localmente, in un raggio limitato, l’ambiente circostante è la trincea.
Le posizioni misogine, le parole d’ordine antisemite, l’odio per lo straniero si mescolano alle tesi cospirative. Alcune davvero elaborate, altre banali però con una diffusione capillare. Ed è interessante che all’interno dell’Fbi c’è chi voglia classificarle forme di eversione.
La paura dei jihadisti – mai domi – ha sottratto risorse, attenzione, contromisure. Solo adesso, con l’eccidio in Texas, la giustizia statunitense non ha escluso di considerare terrorismo interno gli attentati degli xenofobi.
Federico Rampini su Repubblica
Ventinove morti e decine di feriti in due sparatorie a poche ore di distanza: El Paso (Texas), Dayton (Ohio). E sale a quota 32 il sinistro conteggio delle stragi da armi da fuoco negli Stati Uniti dall’inizio dell’anno. L’escalation feroce concentrata nelle ultime ore vede protagonisti due “giovani maschi bianchi”. L’autore del massacro di El Paso è il 21enne Patrick Crusius. La polizia indaga su un forsennato “Manifesto anti-immigrati” che lui avrebbe diffuso via social pochi minuti prima di aprire il fuoco. «Questo attacco è la risposta all’invasione ispanica del Texas», avrebbe scritto il ragazzo mentre guidava per dieci ore e percorreva quasi mille chilometri verso El Paso, armato del suo Ak-47. C’è un surrealismo crudele in quelle parole farneticanti: molti ispanici che abitano a El Paso non sono mai immigrati; discendono dai messicani che vi abitano dal 1690, annessi agli Stati Uniti dopo la guerra del 1846.
È inevitabile collegare il “Manifesto anti-immigrati” e le polemiche sul Muro col Messico che Donald Trump alimenta da quattro anni, prima come candidato e poi da presidente. È ineluttabile che i democratici accusino il capo dello Stato di infiammare l’odio, di cavalcare il razzismo. Nelle ultime settimane Trump ha lanciato un altro slogan, da quando intima «tornate nei vostri Paesi» ad alcune deputate democratiche appartenenti a minoranze etniche (molte di quelle parlamentari in realtà sono nate negli Stati Uniti).
L’urlo «Get back to where you come from» è diventato un leitmotiv dei fan di Trump nei comizi. Di sicuro questo non è un leader che riunisce e riconcilia un’America lacerata e turbata. E tuttavia bisogna essere cauti prima di stabilire nessi causa-effetto, tra i discorsi ideologici e gli spari. Le stragi multiple accadevano sotto Barack Obama, che di certo non incitava al razzismo. Ci furono negli otto anni di Obama sparatorie che prendevano di mira di volta in volta i neri, gli ebrei, i gay. Ci furono stragi di marca jihadista, e sarebbe stato sbagliato collegarle a qualche scelta compiuta da Obama in Medio Oriente.
Ci furono poi stragi “a caso” come la sparatoria ad un concerto di Las Vegas, i cui moventi restano tuttora un mistero. Fare del facile sociologismo, ricondurre l’odio a questa o quella stagione politica, è un espediente comodo per chi cerca di trasformare ogni tragedia in propaganda per la propria causa. Inoltre si rischia di dimenticare la strage silenziosa di tutti i giorni: in certe zone d’America si muore molto più che altrove uccisi dalle armi da fuoco nelle violenze di strada, nei regolamenti tra gang, negli omicidi domestici. Il razzismo è una piaga antica nella nazione che fu macchiata dallo schiavismo, poi insanguinata da una guerra civile per liberarsene. Ma la questione razziale divide anche la sinistra. Lo si è visto nei duri scambi di accuse tra due candidati alla nomination democratica, Joe Biden e Kamala Harris, sull’esperimento del busing (dopo le conquiste sui diritti civili e la fine del segregazionismo si tentò di operare l’integrazione scolastica spostando forzosamente bambini di colore dai ghetti neri verso i quartieri bianchi, il pendolarismo quotidiano in autobus suscitò forti resistenze nella classe operaia bianca che vota democratico; come sempre i bianchi ricchi ne furono esenti grazie al “segregazionismo economico” delle scuole private di élite).
Perciò un’altra tentazione, più che comprensibile vista la complessità delle cause della violenza, è quella di agire sui sintomi. Fermo restando che un presidente non deve mai incitare alla divisione; fermo restando che i giacimenti di odio e di risentimento sono molteplici, si dovrebbe almeno limitare quell’anomalia tutta americana che è la disponibilità di armi. L’ultimo presidente al quale si può riconoscere il merito di aver posto un limite – la messa al bando temporanea delle armi semi-automatiche – fu il democratico Bill Clinton. Nonostante le molte stragi durante i suoi due mandati, Obama non riuscì a fare nulla. Mancano maggioranze al Congresso per imporre limiti. Mancano soprattutto maggioranze nei singoli Stati, dove il federalismo assegna più poteri su questa materia. I movimenti giovanili che nacquero dopo le stragi nelle scuole non sono stati capaci di spostare rapporti di forze nelle assemblee legislative, locali o nazionali. Non è solo uno scontro fra destra e sinistra, né fra “i bianchi e gli altri”. Nei quartieri degradati e violenti di Chicago, Oakland e altre metropoli, non poche donne e afroamericani rivendicano il diritto all’autodifesa col possesso di armi. Un’idea più che legittima è spostare lo scontro dal terreno valoriale a quello economico, rendendo finalmente responsabili in sede civile i fabbricanti e i rivenditori di armi: che paghino per le stragi.
Purtroppo sul Secondo Emendamento e l’interpretazione più retriva del diritto ad armarsi vigila la Corte Suprema con una maggioranza repubblicana. Non si vedono soluzioni all’orizzonte, è la tragica constatazione.
Arturo Zampaglione su repubblica
NEW YORK – Connor Betts, il killer, irrompe all’una e 7 minuti a Ned Peppers, un locale lungo East Fifth Street. È il quartiere della vita notturna di Dayton, la cittadina di 140 mila abitanti dell’Ohio dove fu negoziata la pace per l’ex Jugoslavia. Comincia a tirare il grilletto. E a uccidere. La sua impresa dura appena un minuto: richiamati dagli spari, due poliziotti, casualmente lì vicino (ed entrambi armati), si precipitano nel night club e lo abbattono. «Sono eroi», dice la sindaca Nash Whaley quasi con orgoglio. Ma intanto ci sono stati 9 morti e 27 feriti, che si aggiungono a quelli di appena 13 ore prima della strage di El Paso, in Texas, e alle tre vittime al festival dell’aglio di Gilroy, in California.
Ventinove vittime in 24 ore. Tre sparatorie di massa in pochi giorni, che portano a 32 dall’inizio dell’anno il totale dei mass shooting, cioè degli episodi con tre o più vittime. Affranto e indignato, Papa Francesco recita un Ave Maria per i morti americani durante l’Angelus domenicale. Donald Trump invoca su Twitter, con una certa ipocrisia, la «benedizione di Dio» per i cittadini di El Paso e Dayton. E per l’ennesima volta la strage impone (o imporrebbe) all’America un esame di coscienza. Grazie a leggi permissive, ad antiche e assurde norme costituzionali e alla deferenza della politica nei confronti della lobby delle armi, ci sono negli Stati Uniti 120 pistole ogni cento abitanti. È un record mondiale, con inevitabili conseguenze. A cui si aggiungono armi semi-automatiche di ogni tipo.
Patrick Crusius, il ventunenne arrestato per l’eccidio di sabato a El Paso, per cui verrà chiesta che la pena di morte, aveva comprato le armi in modo del tutto legale. Poco prima del gesto, aveva postato un messaggio anti-immigrati sui social media, ed è ora accusato di “terrorismo domestico”. «Che dovremmo invece chiamare ‘terrorisimo dei bianchi’», puntualizza Rod Rosenstein, l’ex viceministro della Giustizia repubblicano, divenuto famoso per il Russiagate. Che aggiunge: «È un terrorismo alimentato dal web, nello stesso modo in cui vengono indottrinati i terroristi islamici».
La sparatoria di sabato del supermercato di El Paso, dove sono morti anche sei cittadini messicani, aveva il sapore della vendetta razzista. Solo un caso? No, rispondono in coro i candidati democratici alla Casa Bianca. Tutti questi episodi, dicono Bernie Sanders e i suoi colleghi-avversari, sono il frutto di una degenerazione dei rapporti sociali e razziali nell’America di Trump. E ricordando gli attacchi del presidente agli afro-americani e ai rifugiati della frontiera messicana, sventolano ancora la bandiera delle misure per limitare la vendita delle armi.
A Dayton, tra le vittime della strage, c’è anche la sorella del killer. Un particolare che getta nuovi interrogativi sull’ultimo dei massacri negli Stati Uniti. Megan Betts era a un passo dalla laurea in Scienze biologiche, guida turistica per pagarsi gli studi, con il desiderio di «rendere tutti felici». Ventidue anni, Megan è la più giovane delle vittime del massacro, nel quale è morto anche il fidanzato. Non è chiaro se i due fossero tra i clienti del bar, e il killer li avesse incrociati per caso, o fossero il vero obiettivo.
Anna Lombardi su Repubblica
dalla nostra inviata Anna Lombardi NEW YORK – Nonostante cravatta e gel sui capelli, Patrick Crusius, 21 anni, sull’annuario scolastico “Class of 2017” della Plano High School di Allen, ha la stessa espressione ingrugnata del video che lo mostra entrare con un Ak 47 nel Walmart di El Paso, a nove ore da casa, poco prima di fare una strage, uccidendo 20 persone. Detestava i compagni, racconta chi era a scuola con lui. Adorava i serpenti: e li allevava in grandi teche di vetro. Passava le giornate al computer, ravanando fra i siti che alimentavano le sue ossessioni: pistole, estrema destra e Donald Trump. «Era un solitario» dice al Los Angeles Times una vicina di casa, Leigh Ann Locascio. «Andava a scuola con mio figlio ma non gli camminava mai a fianco, come invece faceva Emily, la sorella gemella. Si teneva sempre un po’ dietro». Parlava poco e mal volentieri, quel ragazzo col muso: «Lo prendevamo in giro per i suoi abiti enormi, sembravano di seconda mano» racconta Jacob Wilson, con lui al liceo. Per poi sintetizzare: «Era uno strano».
Niente amici – sul profilo Facebook solo tre contatti, sorella compresa – e nessun lavoro. Che neanche cercava: «Non sono motivato a fare nulla oltre a sopravvivere» si descriveva lui stesso su Linkedin, il sito usato proprio per trovare un impiego. «Lavorare, mi fa schifo. Ma potrebbe andarmi bene una posizione come sviluppatore di software. Passo otto ore al giorno al computer. Mi lascio portare dal vento: vediamo a che carriera mi porta». E chissà se già s’immaginava miliziano: nelle fila dei suprematisti bianchi.
«Questo attacco è la risposta all’invasione ispanica del Texas»: eccolo uno dei deliranti passaggi del manifesto anti immigrati postato da Crusius venti minuti prima di compiere la strage, sulla piattaforma 8chan che si autodefinisce “la parte più oscura di Internet": e per questo è uno dei ritrovi preferiti dall’alt right, l’estrema destra americana. Certo, non è ancora chiaro se sia stato proprio lui a redigere le quattro pagine intitolate An Inconvenient Truth, una verità sconveniente, rubando il titolo al documentario sul clima dell’ex vicepresidente Al Gore. Un testo dove si esalta la violenza facendo un esplicito riferimento a Brenton Tarrant, autore del massacro di Christchurch, in Nuova Zelanda. E si cita la teoria complottista della Grande Sostituzione – a cui molti credono anche da noi – secondo cui sarebbe in atto un piano segreto finanziato dal miliardario George Soros, per sostituire gli occidentali europei con i migranti. Scopo della strage, si dice, è scatenare una guerra fra razze. Magari trovando imitatori del suo gesto: «Fai la tua parte, Fratello».
D’altronde per la cover dell’account Twitter @patrick-crucius aveva scelto l’immagine inquietante di un altro stragista suprematista, Dylann Roof: che nel 2015 uccise nove persone nella chiesa afroamericana di Charleston, in Carolina del Sud. Rilanciava gli hashtag di Donald Trump come #buildthewall, costruiamo il muro Attaccava Bernie Sanders e Nancy Pelosi. Ma erano proprio i complottisti quelli a cui metteva più di frequente i suoi Like: gente come Alex Jones e Paul Joseph Watson, editori dell’infame Infowar, propagatori di bufale come quella secondo cui il massacro nella scuola elementare Sandy Hook, nel 2012, non è mai avvenuto Dopo la strage nel Walmart, si è arreso senza rispondere al fuoco. Sta già parlando con gli investigatori. non voleva morire, Patrick l’ingrugnato. Voleva essere ascoltato.