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 2019  agosto 04 Domenica calendario

Giovanni Floris si racconta a tutto tondo

Telefonata a Giovanni Floris, oggetto della conversazione: l’intervista della domenica. “Ma no, meglio di no”. Perché? “Non mi sembra il caso, non mi piace apparire sul piano personale”. “Evitiamo di andare (troppo) sul personale”. “No, ma grazie”.
Cortese, pacato, deciso. Floris.
Il giorno dopo Marco Travaglio chiede conto del “no”. Sorride per la motivazione, prende il cellulare, e chiama proprio Floris. Trattativa serrata, il conduttore di DiMartedì accetta.
Squilla il mio cellulare, è Floris, e la prima frase, pronunciata con voce squillante e ridanciana, è: “’Tacci vostra”.
Ecco l’appuntamento.
Floris quando parla, non cambia quasi mai il tono della voce, è gentile, sorride, ma non offre appigli, sembra un giocatore di poker professionista, uno di quelli che in gara vestono con il cappuccio della felpa perennemente sulla testa: stizzito o concentrato, ridanciano o rilassato, mantiene il medesimo passo, al massimo incrocia le braccia quando una domanda non lo convince, oppure se la fa ripetere, come ai tempi delle interrogazioni di scuola. Ci tiene alla riservatezza, scinde il pubblico dal privato, la professione da amici e famiglia, e sa qual è il valore del dubbio, e con lui le sfumature non sono sempre tali. A casa i libri arredano le pareti. “Però ora leggo solo su Kindle e prendo molti appunti a parte”.
Non le piace venir intervistato.
Sembra strano parlare di se stessi, se non per ciò che uno pensa della professione o della politica. Piuttosto, perché me l’ha chiesta?
Perché no?
Chi è in televisione non è per forza un personaggio.
Non lo è?
Sono solo uno che si prepara e ha una trasmissione.
Chi è in televisione diventa personaggio.
Ciò non obbliga a esporsi.
Da ragazzo si esponeva?
In che senso?
Rappresentante di classe? D’istituto? Assemblee?
Sì, sempre. Ma anche a DiMartedì mi espongo e volentieri, questo lavoro mi piace moltissimo, poi separo i due mondi: quello privato e quello della professione.
Ha mai rivisto le prime puntate di “Ballarò”?
Ieri per la prima volta: ho chiamato il mio gruppo per preparare questa intervista.
Gruppo storico.
Nato al G8 di Genova del 2001: eravamo lì per Radio anch’io.
Insomma, come si giudica?
L’approccio è simile ad adesso; è differente la trasmissione, differente il contesto: nel frattempo è accaduto di tutto. (sorride) Mi ha colpito rivedere Berlusconi mentre mi sposta, le telefonate in diretta, Di Pietro leader, lo scontro tra D’Alema e Cofferati; poi ero più giovane e più magro.
D’Alema mandò in crisi Cofferati.
Sposto la questione: c’è un tratto che unisce la mia carriera ed è il confronto tra principio di realtà e principio di volontà; in quel caso a coprire i ruoli erano D’Alema e Cofferati.
Al giornale radio di cosa si occupava?
Di economia.
Gli anni di Dini e Ciampi.
Ciampi è stato un’alta espressione della politica: aveva senso di responsabilità, competenza, appartenenza. E forse con lui si sono fuse realtà e volontà.
Differenza tra “Ballarò” e “DiMartedì”.
I leader venivano in trasmissione e si confrontavano; oggi il pubblico preferisce le interviste, d’altronde, spesso, persino i leader sono persone ignote ai più e il telespettatore li vuole conoscere.
I leader sono presenti.
È una generazione ben disposta: in passato non era così facile intervistare il premier, e poi oggi nessuno si alza e se ne va, accettano le domande e non delegittimano.
La hanno delegittimata molto?
L’accusa più frequente dalla destra era di filocomunismo, e quando le domande non piacevano alla sinistra, puntavano sul “ti sei allineato”.
È mai stato comunista?
La mia formazione è liberal socialista, ho studiato con Dario Antiseri, laureato con Luciano Pellicani, e ho avuto la fortuna di lavorare con Gino Giugni.
Che Guevara, kefiah, eskimo…
Mi sono formato negli anni 80, non c’era quella politica, eravamo de-ideologizzati. Mi interessava la filosofia, la sociologia e la letteratura.
Lei negli anni 80.
Giocavo a pallone, mi piaceva studiare, gli amici, e poi l’iscrizione a un’università privata, ma senza mettermi l’orologio sopra il polsino della camicia.
In quanti anni ha chiuso l’università?
Poco più di quattro con in mezzo il servizio militare.
Veloce.
Dovevo sbrigarmi, costava molto.
Voto.
110 e lode a Scienze Politiche.
Bocciato, mai.
Alcuni esami li ho tentati: per l’ultima prova avevo come professore Antonio Martino (poi ministro con Berlusconi). Ero in divisa e non un preparato. Lui simpatico e intelligente, mi rassicura: “Vedo che è alla fine dell’università, non la boccio, ma le assegno il voto più basso che ha sul libretto”. Era convinto fosse un 18…
E invece?
26. E lui: “E ora?”. “Professore, lo ha detto”. “Va bene, sono un gentiluomo”
Lei bluffa?
Può capitare però cerco di non caderci, perché significa mettersi nelle mani altrui.
Come mai militare e non obiettore?
All’epoca non era una scelta ideologica.
Mica tanto.
Non ci ho mai pensato ed è stata un’esperienza formativa.
Assegnato?
All’ufficio movimento, dentro un garage, dove studiavo, e per riposarmi dormivo dentro i copertoni.
I commilitoni la prendevano in giro?
(Ride) Mica siamo in un film di Alvaro Vitali.
Li conosce?
Ho una grande cultura di pellicole horror e B-movie.
Fenech o Bouchet?
Bellissime entrambe. Ah, ho visto tutti i Vacanze di Natale almeno due o tre volte l’uno, e per tradizione vado il 25 dicembre; per Vacanze sul Nilo due proiezioni lo stesso giorno, la terza il 27, giorno del mio compleanno.
“Febbre da cavallo”?
Lo so a memoria (e inanella una serie di citazioni). Però in generale sono un appassionato di cinema e grazie a mio padre: con lui ho visto tutta la grande commedia italiana, da Mario Monicelli a Dino Risi, e mi è rimasto il gusto del riflettere per ridere.
Ha mai recitato?
Sono amico d’infanzia di Paolo Genovese, e fino a Ballarò ho partecipato, da comparsa, a diversi suoi film. In un periodo della nostra vita lui voleva diventare giornalista e io regista e in un’altra fase mi ha convinto a vestire i panni dell’animatore in un villaggio vacanza della Calabria.
Andava dagli ospiti e li invitava: “Dai, questa sera si balla”?
Organizzavo i giochi da spiaggia, quelli di carte, lo spettacolo serale.
Rimorchiava?
Ma che domanda è?
(e qui parte una lunga discussione su qual è la risposta meno narcisistica). Dopo un po’ mi hanno mandato via perché avevo chiesto una pausa per andare in paese e acquistare del gel da capelli. Pausa negata. E io: “È un diritto!” E il capo villaggio: “Non vogliamo sindacalisti”.
Ha un’immagine molto posata ed equilibrata.
E lo sono, o almeno penso. Ma con tutte le sfumature del caso, dipende dalle situazioni, dal periodo, dal contesto; è difficile descrivere una persona.
Quanto impiega per capire chi ha di fronte?
Mi costruisco subito un’idea, ma sono pronto a smontarla e le domande servono proprio a ribaltare, ma è fondamentale dare per scontata la buonafede dell’interlocutore. (Si alza e va a prendere l’acqua in cucina. Respira)
Tra soldi e potere, cosa conta?
Anche qui, non riesco a leggere la realtà in chiave duale. Se invece uno parla di rappresentanza politica e ricchezza economica, in questo momento, e probabilmente, pesa più quella politica.
Frequenta i salotti?
Siamo giornalisti e se trovare fonti vuol dire entrare in certi ambienti, lo capisco. Io sto sempre con le stesse persone: festeggio il compleanno con il solito gruppetto.
Di quanti?
Di base quattro.
Torniamo al G8: chi è stato lì ce l’ha sulla pelle.
È vero, giorni impressionanti in cui ti trovavi a dover raccontare vicende che mai avresti pensato fossero possibili in Italia: nel ricordo di quell’esperienza, Paolo Ruffini mi ha richiamato da New York per condurre.
Si immaginava in tv?
Mi immaginavo giornalista ma non pensavo di riuscirci: a quel tempo la professione era chiusa dai figli di, e mio padre lavorava in banca, mamma professoressa d’Italiano e Latino.
L’appoggiavano?
Molto e quando ho finito l’università, la laurea alla Luiss mi garantì un paio di colloqui che passai: uno alla Banca di Roma, l’altro all’Unione industriali. Scelsi i secondi. Ma la notte prima di firmare non ho chiuso occhio e a colazione mi sfogai con i miei: “Non vado”. E loro: “Bravo”.
Solidali.
Sì, e ho riniziato a collaborare con i giornali, mi sono iscritto alla scuola di giornalismo di Perugia, ma alla fine del biennio la Rai non ci chiamava.
E così…
Rimedio il numero di Enrico Mentana: “Direttore, le interessa il mio curriculum?”. E lui, gentile e spiritoso: “Ti forma la Rai e ti devo prendere io a Canale5? Va bene, manda”.
Faccia tosta.
Era necessario.
Non timido.
A un chirurgo uno domanda se è timido?
Il chirurgo non deve per forza parlare in pubblico.
Allora, come giornalista non lo sono, nella vita a volte.
Ha mai letto una poesia in classe o per Natale?
Per l’amor di dio, no. Ma non è timidezza, è dignità! E cerco di evitarlo ai miei figli.
La televisione…
È nata per necessità: l’11 settembre ero a New York e in redazione una formazione ridotta composta solo da Borrelli e Angelini. Gli aeroporti chiusi. E mia moglie bloccata nell’area a rischio.
Paura per lei?
È una tosta.
Quando si è reso conto della portata del dramma?
Dopo due o tre ore: ho vissuto scene terribili, che ineriscono alla Storia, non alla cronaca.
E cinicamente non è il sogno del giornalista?
No, è solo spaventoso; in quei momenti l’unico obiettivo è di non farti trascinare dall’emotività. Ricordo la prima reazione dei newyorkesi: portare cibo alle Torri Gemelle, anche se inutile, c’erano montagne di merendine e panini, lasciati davanti la zona transennata
Quanti giornali legge?
Sei o sette.
Cattolico?
No, laico. Agnostico.
Le religioni la incuriosiscono?
Insieme alla filosofia è il mio più grande interesse.
Tra odio e indifferenza?
Rispetto.
Cairo in politica.
Qual è la domanda?
Cosa ne pensa della possibilità di Cairo in politica?
Scelta sua; come imprenditore ha dimostrato capacità e come editore è l’ideale: lascia libertà e chiede responsabilità.
Insomma?
Nè lo spero nè lo temo, mi sembra difficile che un imprenditore di tale successo possa pensarci, se non richiesto a gran voce dal Paese.
Il governo regge?
Non credo, non può, perché nasce su un malinteso culturale, un infingimento.
Quale?
Non si può rifiutare la distinzione tra destra e sinistra.
Questo governo è?
Di destra.
Differenza tra destra e sinistra.
La destra difende le opportunità che si hanno, la sinistra vuole che se ne creino di nuove per chi non ne ha. (Entra la moglie, Beatrice Mariani, compagna d’università, lavora a La Sapienza e scrive anche lei: “Tutto bene?”. E Floris: “Sì, sono scivolato solo sull’animatore”. “Non stavamo insieme, puoi rispondere”).
A “DiMartedì” il pubblico applaude sempre, anche tesi opposte.
A Ballarò le gradinate erano composte da persone che chiedevano di partecipare, e ai tempi di Berlusconi erano quasi tutti “anti”, così per pareggiare cercavamo gruppi di centro destra (ride). Una sera, Castelli ospite, c’era una signora dietro di lui che esagerava tra applausi e smorfie: durante la pubblicità mi avvicino all’allora ministro e con garbo gli esprimo un’esigenza: “Per favore, questa la tranquillizzi”. E lui: “È mia moglie”
Andiamo a DiMartedì.
La gente non segue più tanto la politica e i talk si sono moltiplicati: i volontari saranno una cinquantina, poi riempiamo e il problema è che non hanno una posizione e si aggregano a ogni applauso, di qui l’inflazione. (ci pensa) È una questione che dobbiamo affrontare.
Quanto dorme?
Se posso molto, e ovunque: quando ho cambiato redazione, la prima richiesta, è stata quella di un divano: sono in grado di appisolarmi anche per dodici minuti. (Ha davanti dei fogli bianchi, rigirati).
Cosa sono?
Appunti. Mi ero preparato.
Vediamoli…
No, (sorride). Sopra c’è la storia con Bush…
Cioè?
Ero a cena al Watergate di Washington, vedo entrare Bush con Condoleeza Rice, esco per beccarlo, i camerieri si mettono in fila, erano tutti messicani, io concludo la sfilata. Attenzione: sono piccolo e scuro.
E…
Bush arriva a me: “Voi camerieri messicani siete l’orgoglio della nazione”, o qualcosa del genere, con annessa stretta di mano.
E poi?
Ho intervistato la Rice
Va spesso allo stadio.
La Roma è una passione nonostante gli errori di Pallotta.
Allora è passione forte.
Quando mi sono sposato i tavoli avevano i nomi dei calciatori giallorossi.
Sua moglie contenta…
Anche lei è romanista, il nostro tavolo si chiamava “Totti”, per i laziali c’era “Paolo Negro” (con un suo autogol la Roma ha vinto un derby).
Totti lo conosce?
No, però una volta gli ho chiesto un selfie e quando si è dimesso dalla Roma sono andato, di nascosto, alla conferenza stampa. Per fortuna non mi hanno riconosciuto.
(E sul pallone non ci sono virgole, precisazioni, sfumature perché, come canta Antonello Venditti in “Grazie Roma”: “Dimmi cos’è che ci fa sentire amici, anche se non ci conosciamo…”)