il Giornale, 4 agosto 2019
Novant’anni di Capannina
Se un locale diventa un simbolo, ha vinto. Se diventa il locale da ballo (con ristorante) più antico del mondo allora significa che è ancora in grado, dopo decenni, di intercettare il gusto popolare, di calamitare gli artisti più significativi, di essere comunque al centro dell’attenzione.
La Capannina di Forte dei Marmi era proprio una capannina quando fu inaugurata a Ferragosto del 1929. Anzi, ancora meno: era il ripostiglio degli attrezzi di un falegname sulla spiaggia quando l’albergatore Achille Franceschi ci investì i risparmi rimasti dopo il fulmineo fallimento del suo Grand Hotel e del Casinò che aveva lanciato. Le aspettative, insomma, erano poco più di zero. Lui prese qualche tavolino, sistemò un bancone per servire cocktail e bevande e comprò un grammofono a manovella, che allora era il massimo dell’intrattenimento. «Sembra proprio una capannina» disse una contessa entrandoci per la prima volta.
In novant’anni la Capannina di Franceschi ha visto passare conti e contesse, duchi e marchesi, rockstar, petrolieri, latin lover, ricconi con la «fabbrichetta» e professionisti borghesi, insomma tutti, mescolando alto e basso, élite e impiegati, tavoli prenotati da mesi o all’ultimo minuto, ereditieri svogliati oppure ammiratori del cantante di turno. Anche in questa «mescolanza» c’è il segreto di un locale che ha trascorso tutti i propri novant’anni sulla cresta dell’onda, ma proprio tutti, salvo quando fu deciso di chiuderla perché la Linea Gotica e la guerra sferragliavano e sanguinavano a pochi passi. Ci sono ristoranti o discoteche o club che vanno di moda per anni, magari tanti, e poi appassiscono, agonizzano, spariscono. La Capannina no. Ormai chiuso il Rosalend di New York, oggi la Capannina del Forte è il locale più «vecchio» del mondo, seguito dal Maxim di Parigi, che è stato inaugurato quattro anni dopo.
All’inizio qui si ritrovavano soprattutto i nobili come gli Sforza, i Rucellai, i Visconti di Modrone o i Della Robbia e i gerarchi fascisti come Ettore Muti o Italo Balbo (che «parcheggiava» il proprio idrovolante lì davanti) arrivavano per l’ora dell’aperitivo, che magari era il Negroni inventato dal conte Camillo Negroni a Firenze alla fine degli anni Venti. L’atmosfera era soffusa, tranquilla, pettinata dal vento, non c’erano paparazzi, nessuna «security» filtrava gli ingressi. Dopo l’incendio del 1939 e la guerra, la Capannina viene ricostruita e inizia a respirare l’aria del boom.
Se prima era la calamita dell’aristocrazia e della politica, dagli anni Cinquanta inizia ad attirare il «jet set». E se in platea arrivano attori di Hollywood o intellettuali come Montale e Ungaretti, in poco tempo sul palco si ritroveranno i migliori nomi della canzone. Alla Capannina si sono esibiti artisti che quasi tutti gli altri locali del pianeta avrebbero potuto soltanto sognarsi, da Ray Charles a Edith Piaf (unica performance italiana di sempre). Ma perché tutto questo successo? Ciò che è accaduto in quelle sale si può intuire anche sfogliando il volume La Capannina di Franceschi. Da Achille Franceschi a Gherardo Guidi 90 anni di un mito (Gruppo Editoriale, pagg. 144, euro 25) che aiuta a capire perché Gianni Agnelli e Niccolò Theodoli giocavano a poker con due noti bari ai tavoli del piano nobile della Capannina o per quale motivo John Fitzgerald Kennedy ha trascorso qui una sera con la sua fidanzata dell’epoca. Era il 1939 e il vecchio mondo era alla fine.
Oggi alle porte del locale si arriva tranquillamente su di una pista ciclabile, oppure si parcheggia di fronte con relativa facilità. E, avvicinandosi, si sente il profumo di «mito». Non certo per il lusso, la Capannina non è lussuosa, salvo alcuni prezzi. E non certo per i controlli. La Capannina è diventata un’icona che chiunque conosce e riconosce anche perché, nonostante il passaggio di proprietà dalla famiglia Franceschi a Gherardo e Carla Guidi, non è cambiato praticamente nulla. Fuori, c’è ancora l’insegna di legno «La Capannina di Franceschi». E all’interno poco è mutato, almeno dal punto di vista stilistico, confermando un’impronta di stile che è diventata «brand».
Oggi di un evento si dice che è «da Capannina» anche se non va in scena alla Capannina. In ogni caso sono pochi i locali che riescono a raccogliere con una sola attrazione così tanti pubblici diversi. Qualche venerdì fa, al concerto di Jerry Calà iniziato alle 2 di notte, il pubblico era completamente transgenerazionale. C’erano i signori al tavolo con la bottiglia nel ghiaccio. C’erano i quarantenni abbronzati. E c’erano i ventenni alle prime vacanze, scatenati, sorpresi, consapevoli di essere in un locale che è diventato una fotografia del nostro costume e che, ospite dopo ospite, ha documentato il cambiamento dei tempi. Qui sono state girate alcune scene di Sapore di mare di Carlo Vanzina del 1983, uno dei «film cardine» dell’immaginario collettivo di un paio di generazioni. I condizionamenti famigliari. Gli amori estivi. La malinconia dei primi abbandoni. Se per i protagonisti del boom, La Capannina era il posto dove si esibivano Peppino Di Capri, Gino Paoli, Fred Bongusto, Don Backy, Ornella Vanoni, Gilbert Bécaud, i Platters e Paul Anka, insomma i cantanti simbolo degli anni Sessanta, per i loro figli è diventata il paradigma di uno stile di vita possibile per una sera. Come in pochi altri posti al mondo, essere alla Capannina significa entrare in un «ruolo» e goderselo per qualche ora in mezzo alla musica, ai cocktail, all’aria di mare che fa a gara con i condizionatori.
Quest’estate, oltre alla festa celebrativa del 21 agosto, sul palco sono previsti anche Guè Pequeno, Il Pagante, Massimo Ranieri, Elettra Lamborghini, in una «mescolanza» che si conferma anche stilistica. Un privilegio di pochi locali. E la conferma che resistere alle mode spesso aiuta a diventare una moda che non passa mai. Come la Capannina.