il Giornale, 4 agosto 2019
Biografia di Eleonora Duse
Un teatro di provincia. Si recita l’atto finale di Froufrou e alla protagonista, sul letto di morte, viene condotto il figlio per l’ultimo addio. Il bimbo non appartiene alla «compagnia», è stato preso all’ultimo momento da un casolare vicino; del resto, non ha bisogno di prove, deve solo starsene zitto e immobile ad osservare la madre che sta morendo. Froufrou lo abbraccia, lo bacia, lo accarezza, ma lo fa con tanta naturalezza e senza artificio che il piccolo ne resta turbato. Neppure dalla madre vera ha mai avuto una tale prova di amore e così, in barba alle raccomandazioni ricevute, improvvisamente si mette ad accarezzarle il viso, scoppia a piangere e si stringe al petto dell’attrice. E quando, secondo copione, vengono per portarlo via lui non ne vuole sapere e con l’ostinazione di cui solo i bambini sono capaci resta avvinghiato a quella madre di cui non conosce il nome, ma solo le carezze. Froufrou non poté morire, quella sera, a causa di quel bimbo che non voleva staccarsi da lei. Froufrou era Eleonora Duse.
Molti anni prima, un’altra bambina si trovò a recitare su un palcoscenico, ma non per caso. Eleonora era figlia di attori, Enrico ed Angelica Duse, che portavano i loro spettacoli in giro per l’Italia. Un giorno del 1863, a Zara, debuttò a soli cinque anni con I Miserabili di Victor Hugo, nel ruolo di Cosetta. Lo fece con la naturalezza di chi aveva avuto il teatro come casa (era nata a Vigevano, tappa occasionale della compagnia) e con la spensieratezza dei bambini che tanto non si preoccupano del futuro. Eppure, mentre Eleonora-Cosetta se ne stava a questionare in scena con la matrigna Thénardier, il futuro già scriveva per lei. Al di là dell’Adriatico, a Pescara, proprio quel giorno nasceva Gabriele d’Annunzio.
A dodici anni già protagonista
Fin dagli esordi, la vita intraprese con Eleonora un implacabile gioco: dava con una mano e con l’altra toglieva. I trionfi e la solitudine, il genio e la fragilità, gli amori forti destinati a finire in squallidi abbandoni, la ricchezza e la povertà, la fortuna e il dramma. In questa chiave va letta tutta la sua tormentata vicenda umana.
La Duse ha il suo primo ruolo da protagonista a soli dodici anni nella Francesca da Rimini di Pellico, ma solo perché la madre si ammala d’improvviso, prima avvisaglia di una fine vicina. La sorte insomma spinge Eleonora dai ruoli secondari direttamente al proscenio, ma intanto, dietro le quinte, le sta portando via l’affetto più caro. E conduce il suo gioco fino in fondo: l’attrice vede il suo primo vero trionfo nel 1874, in una memorabile Giulietta scespiriana all’Arena di Verona, oscurato dalla morte della madre. Le comunicano la notizia in palcoscenico.
Questa Giulietta segna una svolta nella carriera della Duse, ancora sedicenne. Perché cambia radicalmente il suo modo di recitare e di vivere il teatro, spianandole la strada verso il successo. Nel gennaio 1879 Eleonora entra a far parte della compagnia di Giacinta Pezzana al Teatro dei Fiorentini a Napoli e due mesi dopo ottiene un trionfo come Ofelia, nell’Amleto. La sua sembra una ascesa senza soste: gli applausi, i camerini colmi di fiori, la venerazione del pubblico, l’ammirazione dei potenti, ma dietro, sempre in agguato, la sorte. A Napoli, dove è circondata da tutto il mondo intellettuale (e dove incontrò la sua unica vera amica, Matilde Serao), Eleonora conosce Martino Cafiero, brillante direttore del Corriere del Mattino. Lei è già l’attrice acclamata, lui ha fama di grande seduttore: la loro relazione presto diventa di dominio pubblico. Quando però Eleonora rimane incinta, Cafiero non vuol saperne e a poco a poco si allontana da lei e così tutti gli altri, nel milieu intellettuale di Napoli. Resta solo la Serao, che le rimarrà vicina per tutta la gravidanza. Il bambino nasce a Marina di Pisa, ma muore subito dopo. Cafiero è lontano. Napoli è lontana. L’amore sperato è lontano. Ma vicino, la sorte sta preparando altri trionfi. Il gioco deve continuare.
Fin da quella acclamata Giulietta all’Arena di Verona, la Duse ribalta i canoni della recitazione di moda. Meglio, esclude i canoni cancellando con un colpo di spugna il concetto stesso di «ruolo», sovrapponendogli l’attrice, lei stessa. George Bernard Shaw, che non era certo un tipo facile da accontentare e che della Duse fu sincero ammiratore, divideva le attrici in tre categorie: l’artista minore, che si limita a copiare le interpretazioni classiche, con effetti di sicuro successo; l’interprete media che, di una determinata parte, prende alcuni punti di più facile impatto col pubblico, si concentra su quelli e lascia che il resto proceda da solo (quanto basta insomma per qualche riga di recensione); e la grande attrice, che rivive tutta la parte, si trasferisce per intero nel personaggio e non imita mai neppure se stessa, rinnovandosi in continuazione. «A questo stadio» osserva Shaw, «l’attrice sembra non cogliere più spunti, ma procede nella maniera meno studiata e più naturale. È questa la rara perfezione raggiunta dalla Duse».
Non bellissima, mai truccata, con una voce spezzettata che arrocchiva improvvisamente, incapace di gesti armoniosi, Eleonora Duse ha sempre catturato il pubblico in forza della sua stessa presenza sulla scena. Detestava la classica «entrata» alla quale si affidano molte attrici, e di conseguenza tutta la gestualità ampia. Non si aggrappava ai tendaggi, ma riusciva ad esprimere il dolore anche solo parlando a se stessa, la testa bassa sulle ginocchia. In una scena di forte tensione era capace di starsene in un angolo del palcoscenico, a girare e rigirare nervosamente la chiave in un mobile e a poco a poco tutti gli sguardi si indirizzavano su di lei e su quel gesto.
Questo modo di recitare, che aveva già conquistato le platee di mezza Italia, conquista Torino, prima tappa dopo la sfortunata esperienza napoletana e il dramma del figlio morto. La Duse si allontana dai classici scespiriani per avvicinarsi agli autori contemporanei, alla ricerca di testi nuovi (e questo la porterà inevitabilmente nelle braccia di D’Annunzio). Convince così il capocomico Rossi ad affidarle il ruolo di protagonista nella Principessa di Bagdad di Dumas figlio, ruolo che era costato un fiasco alla Pezzana, forse la più «classica» tra le attrici italiane del tempo. Per Eleonora è l’ennesimo trionfo, al quale pone il sigillo lo stesso Dumas; la fragile attrice minuta e pallida, sul cui viso già si intravvedono le prime rughe di un invecchiamento precoce, a dispetto dei ventitré anni, si affaccia di colpo all’Europa teatrale.
E l’Europa teatrale vuol dire in quel momento Sarah Bernhardt, regina della scena, fantasma del quale, a dispetto delle apparenze, la Duse per molti anni non riuscirà a sbarazzarsi, divisa tra rivalità e ammirazione, tra gelosia e rispetto. La segue, la spia, cerca di afferrarne vizi e virtù sulla scena e nella vita, ma capisce di essere totalmente diversa. Sono anni, quelli con la compagnia Rossi, di grande arricchimento artistico, al quale non corrisponde una vita privata altrettanto ricca. Eleonora sposa l’attore Tebaldo Checchi, ma il matrimonio non funziona nonostante la nascita di una figlia, Enrichetta. A unirli, più che la figlia o un amore che non esiste, è il lavoro: insieme partono per tournées in tutto il mondo, in Egitto, a New York, a Chicago, in Argentina. Ovunque per Eleonora sono successi in teatro e insuccessi nella vita sentimentale. Ha una relazione con il primattore Flavio Andò: sembra un grande amore, ma anni dopo confesserà che «era soltanto bello, per il resto un perfetto cretino». Di altri amori si parla a mezza voce fin quando Tebaldo, alla vigilia della partenza da Buenos Aires per l’Italia, decide di restarsene in Sud America. Tra marito e moglie è una separazione senza alcun dolore. Quanto a Enrichetta, uscirà praticamente dalla vita di entrambi.
Ormai Eleonora vive soltanto per il teatro. A soli ventotto anni è capocomico, firma i contratti, assume gli attori, fa da regista, da organizzatrice, da contabile. A Milano, tra il 1877 e il 1888 vive l’amore forse più vero, anche se non certo più importante della sua vita, quello con Arrigo Boito, intellettuale colto ma schivo, profondo ma poco passionale. I due si scambiano centinaia di lettere (tra le pieghe retoriche del loro monumentale epistolario, ci sono pagine bellissime), ma alla fine finiranno per trovarsi di fronte a un’amara verità: lei lo ama, lui l’ammira e basta. Ancora una volta la sorte giocò un brutto tiro all’attrice: dopo aver messo sul suo cammino tanti uomini mediocri, le fa incontrare l’uomo giusto nel momento sbagliato.
L’incontro con D’Annunzio
Lei è troppo presa dal teatro, in tutti i sensi: lo vive come un’avventura ma anche come una prigione che le si sta richiudendo addosso. Boito se ne accorge, e cerca in tutti i modi di allentare i legami di lei con la scena. In un appunto Eleonora scrive: «Ho lavorato sempre e tutta la mia vita non è stata che un continuo debutto fra mille umiliazioni e mille pene e compromessi. Bisogna recitare per giorni e per mesi delle parti odiose per ottenere alla fine il sacro premio di qualche attimo di respiro in una parte sentita e amata, e poi ricadere di nuovo nella dura necessità».
A trent’anni, finita amaramente l’intensa storia d’amore con Boito e con un’invidiabile catena di successi alle spalle, Eleonora Duse si sente come se avesse già chiuso. E invece il più importante capitolo della sua vita deve ancora essere scritto.
Gabriele d’Annunzio fu la pedina chiave della partita che la sorte aveva deciso di giocare con la vita di Eleonora. Per dieci anni, dal 1894 al 1904, l’esistenza dell’attrice fu legata a filo doppio con quella del poeta: migliaia di pagine sono state scritte sulla loro tempestosa unione, ma le zone d’ombra superano ancora, e di molto, quelle sulle quali si è fatta un po’ di luce.
Da un punto di vista strettamente artistico, il teatro di D’Annunzio non giovò affatto all’attrice perché la rivestì di parole, lei che sulla scena era tutta sfumature ed emozioni. Eppure la Duse lo considerò sempre il «suo» autore. Incurante (o quasi) delle continue infedeltà, si consolava dicendo che alle altre cedeva l’uomo, non il genio.
Si incontrano nell’autunno del 1894, a Venezia. Lui ha già una moglie, quattro figli, un numero imprecisato di amanti e, alle spalle, il successo del Piacere, dell’Innocente e del Trionfo della morte. Lei è la Divina, la più grande attrice del mondo, più della stessa Bernhardt. Ma è anche un’artista insoddisfatta, sempre alla ricerca di nuovi testi e di nuove parti, quelle che solo il giovane Gabriele sembra poterle dare in quel momento. Caso abbastanza singolare nella storia del teatro, di un’attrice che si trova un passo avanti rispetto al repertorio: non rincorre le opere, ma è costretta ad aspettarle.
Da questa situazione anomala nasce un anomalo rapporto. E D’Annunzio, spirito grande e meschino, ne approfitta a piene mani. Eleonora lo spinge a completare per lei La città morta, se ne va in America per accantonare i fondi necessari e quando torna scopre che il suo Lele (o il Vate, come lo chiama a seconda dei casi) ha finito sì il lavoro, ma intende affidarlo alla rivale Sarah Bernhardt. È solo la prima di una lunga catena di delusioni sopportate ora con insofferenza, ora con dignità. D’Annunzio poi è abilissimo a rimescolare le carte: sostiene che la parte di Anna ne La città morta sembra invece scritta apposta per lei (eppure non rinuncia alla Bernhardt per il debutto) e la spinge a raccogliere altri fondi per un teatro tutto loro, da costruire sulle sponde del Lago di Albano: lui scriverà, lei interpreterà i suoi lavori. Continueranno a lungo, su questo equivoco: lei a recitare e indebitarsi, lui a scrivere e a spendere i soldi di Eleonora. Nel giugno del 1897 il poeta la convince a trasferirsi sui colli fiorentini in una piccola villa, «La Porziuncola», piccola in rapporto a quella ben più grande e più sontuosa, «La Capponcina», nella quale si stabilisce lui. Vicini, ma ben separati. Nei ricordi di Nina, la fedele cameriera della Duse, ci sono i molti giorni passati dall’attrice in solitudine, invano aspettando l’incontro con il suo Lele che intanto se la spassa tra le braccia dell’amante di turno.
Un rapporto destinato a naufragare, ma al quale la Duse si aggrappa disperatamente anche quando, dopo aver spinto D’Annunzio a completare e a dare alle stampe Il fuoco («Buttalo alla folla che lo attende») si scopre raffigurata nell’impietosa descrizione della vecchia e noiosa Foscarina, gelosa della giovane di cui il protagonista (guarda caso tanto simile all’autore) si innamora.
Delle opere che D’Annunzio scrive per lei in quegli anni solo la Francesca da Rimini (peraltro costatale in allestimento ben 400mila lire di allora) ha un discreto successo, ma solo grazie alla sua interpretazione e non certo per il valore del testo. La Duse decide allora di riprendere le tournées all’estero, anche perché ha urgente bisogno di soldi per pagare i debiti ai quali l’amante l’ha costretta in tutti quegli anni. I successi non si contano, ma a farne le spese, alla fine, è la forza fisica che a poco a poco l’abbandona.
E a un’attrice stanca e malata la sorte, nella sua assurda e spietata partita, gioca la mossa più crudele.
L’«ultimo atto» a Pittsburgh
Nel 1904 D’Annunzio termina La figlia di Jorio, pensato per la Duse e a lei dedicato. Ma l’attrice si ammala gravemente in Germania, tanto che la prima, fissata per il 2 marzo a Milano, deve essere rinviata. Benché febbricitante, Eleonora raggiunge Milano per essere subito pronta, una volta guarita, ad entrare in scena. Ma alla richiesta di un ulteriore rinvio, l’«amato» D’Annunzio per tutta risposta manda a prendere nella sua stanza d’albergo il costume di Mila, la protagonista: intende affidare la parte alla più giovane Irma Gramatica. Insomma, un benservito. Il «Vate» abita a un centinaio di metri dall’albergo dove Eleonora è costretta a letto dalla malattia, ma non si degna neppure di andarla a trovare. Si limita a notificarle, nel suo gergo tipico: «Il teatro è un mostro che divora i suoi figli: devi lasciarti divorare».
La figlia di Jorio è un grande successo: dopo dieci anni di fatiche, di amarezze, di progetti e di speranze, all’appuntamento più importante Eleonora non riesce ad arrivare. D’Annunzio sì.
La storia d’amore volge inevitabilmente alla fine. Che sia per la vigliaccata della Figlia di Jorio o, come pare, per la scoperta dell’ennesimo tradimento, questa volta con la bellissima Alessandra di Rudinì, poco importa. La separazione, inevitabile, coincide con l’inizio del declino della Duse, declino fisico più che artistico, perché altri successi e altri trionfi ci sarebbero stati in tutto il mondo con autori nuovi, Pirandello e Ibsen su tutti. Hollywood, agli inizi della grande avventura del cinema, si rivolge a lei che intanto ha girato una sola mediocre pellicola, Cenere. Griffith le propone una parte nel film che sta preparando, ma lei rifiuta. Quel film sarebbe stato Intolerance, uno dei capolavori della cinematografia di ogni tempo. Ma sono solo scampoli di una carriera che era finita molto tempo prima, in quella stanza d’albergo a Milano, quando le avevano portato via il costume di Mila.
In una stanza d’albergo si consuma anche l’ultimo atto della sua vita. A Pittsburgh, dove sta recitando nella Porta chiusa, la Duse ha una grave ricaduta della malattia ai polmoni che trascina da anni. È ancora la più grande, la Divina, le platee la acclamano, gli scrittori la venerano, gli impresari se la contendono, ma nessuno sembra accorgersi che sta morendo. Accanto c’è solo la fedele Nina, che l’assiste nell’agonia. Passa le ore a ricordare brandelli del suo passato nei momenti di lucidità che si fanno sempre più brevi. Finché una notte, come a teatro, vede a poco a poco calare il sipario. E, al di là di quel sipario, per la prima volta nella sua carriera, non sente applausi, ma solo un lunghissimo, interminabile silenzio.